testo e foto di Abertina D’Urso | albertinadurso.com
Cina, Birmania, Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam sono paesi molto diversi tra loro e spesso perfino contrapposti l’uno all’altro, eppure sono legati da un comune denominatore: il Mekong, il fiume più lungo e importante dell’Indocina, che garantisce la sussistenza di almeno settanta milioni di persone; è vitale per l’economia degli stati che tocca e in parte è anche linea di confine naturale tra essi.
Le sorgenti, difficili da individuare, si trovano nell’altopiano del Tibet. Da qui il fiume scorre nella provincia cinese dello Yunnan, dove forma profonde gole tra le imponenti montagne, scende fino a bagnare il capoluogo Jinghong e prosegue verso Sud segnando per circa duecento chilometri il confine naturale tra Birmania e Laos. Attraversa poi la regione chiamata Triangolo d’oro, un’area multietnica e multiculturale compresa tra Birmania, Laos e Thailandia, nella quale convergono numerose comunità tribali, dedite soprattutto alla coltivazione dell’oppio, che non conoscono confini geografici e politici e sono fuori dal controllo dei rispettivi governi.
Da qui il Mekong costituisce il confine tra Laos e Thailandia; si inoltra in Laos, per tornare poi a segnare il confine tra questi due paesi per diverse centinaia di chilometri, fino ad allargarsi sensibilmente formando la regione di Si Phan Don (quattromila isole) ed entrare in Cambogia dove, nella capitale Phnom Penh, confluisce con il fiume Tonle Sap. Infine sfocia in Vietnam, non lontano dalla città di Ho-Chi-Minh, formando un enorme e popolatissimo delta. Il Mekong è da sempre un’importantissima fonte di comunicazione tra i popoli che vivono nel suo bacino. I milioni di persone la cui vita è legata ad esso sono accomunate non solo dalla dipendenza dalla pesca, dalla coltivazione del riso e da uno stile di vita simile, ma anche da continui scambi, resi molto più semplici dalla presenza del fiume, per lunghi tratti facilmente navigabile, rispetto a quelli con altre popolazioni che, pur appartenendo allo stesso paese, sono separate da montagne e da strade lunghe, tortuose e difficilmente percorribili.
Nonostante i legami e le similitudini tra le persone che vi abitano, le sponde del Mekong sono state teatro di atroci guerre che hanno segnato profondamente sia la popolazione sia il territorio, ancora disseminato di mine inesplose, e attualmente le sue preziose acque sono al centro di violenti contrasti geopolitici per via dello sfruttamento dell’energia idroelettrica. Negli ultimi anni i rapporti tra i paesi rivieraschi si stanno nuovamente incrinando a causa dei progetti di dighe messi a punto sull’alto corso del fiume sia dall’ingorda Cina, che ne ha già costruite quattro e ne ha in programma altrettante, che dal Laos, uno dei paesi più poveri al mondo.
Principale acquirente dell’energia Laotiana sarebbe la Thailandia, che è anche presente nel progetto di un enorme impianto idroelettrico a Xayaburi, con degli investimenti che il Laos non potrebbe permettersi, e con una delle sue più grosse compagnie di costruzioni alla quale è stata assegnata una concessione di ventinove anni. Ma a Bangkok la protesta della gente si è fatta sentire: una recente petizione, corredata da più di quindicimila firme, è stata consegnata al primo ministro thailandese per chiedere di cercare opzioni meno devastanti per procurarsi l’energia.
Ho realizzato questo progetto durante quattro viaggi nel Sud Est Asiatico tra il 2005 e il 2012, periodo in cui il progresso ha cambiato radicalmente questa zona, rendendola a tratti quasi irriconoscibile, mentre le comunità, i paesaggi e l’ecosistema sulle rive del Mekong non mi sono sembrati ancora snaturati. Passando da un villaggio all’altro a bordo di barche da trasporto merci o da pesca, sulle quali è sempre possibile ottenere un passaggio, o via terra, su un tuk-tuk, il pittoresco taxi a tre ruote caratteristico di quasi tutta l’Asia, quello che più mi ha colpito è stata proprio la semplicità di vita di queste popolazioni che abitano in palafitte o barche di legno, seguendo i ritmi della natura e le loro tradizioni, lontani da televisori, computer e spesso anche elettricità e telefoni, ma mai senza acqua, cibo e, grazie al vivacissimo commercio fluviale, beni di prima necessità. Se i progetti di sfruttamento energetico delle acque del fiume si concretizzassero, si rischierebbero danni irreversibili come l’estinzione di decine di specie ittiche e la perdita di fertilità del suolo, che in un territorio che vive di pesca e coltivazione del riso significherebbe costringere migliaia di persone ad abbandonare i propri villaggi e migrare nelle periferie delle grandi città.
La minaccia che incombe sulle acque del Mekong, sul suo tesoro biologico e sugli abitanti del suo ampio bacino mi ha spinto a ritornare qui diverse volte, dando vita al reportage. Volevo conoscere questi luoghi suggestivi e raccoglierne una testimonianza prima che cominciassero a svanire, senza però perdere la speranza che le numerose campagne di salvaguardia e una politica di conservazione più lungimirante abbiano la meglio sui guadagni garantiti dalla costruzione delle dighe e che tutto ciò che ho avuto la possibilità di apprezzare durante i miei viaggi continui ad esistere, il più indisturbato possibile.