di Giulia La Starza
Dopo aver lasciato l’Italia per Beirut e aver esplorato poi Byblos e Batroun, continua il diario di viaggio attraverso il Libano
TAPPA 4 – ASHURA
È la sera del secondo giorno a Beirut, sono nervosa, sono emozionata, ma la sensazione preponderante è quella del non sapere bene da che parte girarsi.
“Sei capitata in un momento particolare, questo è periodo di lutto per gli sciiti, mercoledì è Ashura – dall’arabo “ashra”=dieci – decimo mese di Muharram, il primo mese del calendario islamico.
Per Ashura si intende nel mondo sciita la più importante delle festività religiose, la commemorazione della morte dell’Imam Hussein, nipote di Maometto e suo secondo successore per gli sciiti nella battaglia di Kerbala nel 682 DC, anno decisivo per quello che sarà il c.d scisma tra sunniti e sciiti.
Il massacro di Hussein, ad opera della fazione opposta degli Omayyadi con a capo Yazid I, è interpretato dagli sciiti come l’immagine più alta della lotta del bene contro il male, e deal trionfo della giustizia.
Dunque la sofferenza è rappresentata attraverso una serie di manifestazioni, processioni, con altissimi livelli di partecipazione, in tutte le regioni a maggioranza sciita. In ogni luogo però, avviene in modo diverso. A volte si tratta di rituali di sangue, in cui è presente l’autoflagellazione, il “tatbir “ con catene, tagli con coltelli sulla testa o sul viso. Questo avviene principalmente nel villaggio di Nabbatieh , in alcuni villaggi iracheni e tra alcuni sciiti indiani, convertitisi dall’induismo. Si può dire che, coinvolgendo una così bassa percentuale del mondo sciita, in realtà sia una pratica accessoria, e non prettamente legata all’Ashura o al mondo sciita.
Qui siamo in Libano però, ed Hezbollah considera la pratica come “non islamica” sulla linea del Leader Supremo Khamenei (come prima di lui Khomeini) in Iran. Voglio andare a vedere l’Ashura, ne sono sicura.
Questo significa che mi dovrò recare nella zona sud di Beirut, quella che gli Europei chiamano la “roccaforte di Hezbollah” appunto, poiché la città è, seppure sommariamente, geograficamente e settariamente divisa in quadranti nonostante ormai quasi tutti i quartieri siano misti ed Hezbollah non sia necessariamente rappresentante del mondo sciita.
Il quartiere si chiama Dahye, so poco altro. Prima di arrivare in Libano ho cercato più contatti che potevo, sia Italiani, ma soprattutto Libanesi, perché qui per una persona che venga da fuori, reperire informazioni, è abbastanza complicato.
Il giornalista italiano che ha promesso di portarmi con lui, mi dice quindi che alle 6,30 si parte da Hamra, perché la processione comincerà nelle prime ore della mattinata. Ma dopo poche ore mi comunica che no, non potremo andare, o almeno lui, e quindi di conseguenza si presume anche io, non andrò, perché alcuni suoi colleghi gli hanno comunicato che la situazione è troppo tesa, e si teme un attentato di Daesh.
Come se non bastasse, gli è arrivata una comunicazione dall’ambasciata Italiana su un eventuale situazione di rischio. Nulla è certo, ma è possibile, e non vuole avermi sulla coscienza. Tutto questo mi arriva accompagnato da un enorme senso di delusione e rassegnazione. Ma non amo darmi per vinta. Così, comincio a chiedere a tutti i miei nuovi amici Libanesi se siano disposti ad accompagnarmi, o addirittura se sia così poco sicuro andare da sola.
Le risposte sono state varie:
“Vai tranquilla, non può succederti nulla, al limite non ti faranno entrare.”
“Vieni a Nabbatieh, il rituale qui è molto più caratteristico.”
“Io non vado nei sobborghi sciiti.”
“Non posso, devo lavorare, puoi provare ad andare, secondo me è tranquilla, ma quale attentato, ci sono troppi controlli di sicurezza”
Ancora una volta sono spaesata, non mi è ben chiaro cosa sia bene fare. La vita e l’istinto decidono per me, mi sveglio senza volerlo alle sette. Devo andare.Scendo in reception, e il mio nuovo amico, che vive nel sobborgo di Burj al Barajneh, mi dice che non solo non ho nulla da temere, ma mi può aiutare, e un suo amico di Dahye può portarmi se lo desidero. Sarà qui in 20 minuti.
Salgo in macchina, con Amid, e ci dirigiamo velocivnel sud di Beirut. Usciti da Hamra, mi sembra di vivere una situazione quasi irreale. Quelle strade più o meno grandi che ho conosciuto esclusivamente colme di traffico congestionato, sono completamente sgombre, tutti i negozi sono ovviamente chiusi, il sole è alto e regna il silenzio. Arrivati all’imbocco della strada principale di Dahye, Hret Hreik, tutti gli accessi sono bloccati dai carri armati dell’esercito regolare libanese. Si parcheggia, e si passa il ” primo ostacolo”. Sono vestita credo in modo adeguato, abito lungo, sotto al ginocchio, nero, e capo coperto.
Cominciamo a camminare, e mi trovo in una strada enorme, separata da due carreggiate, una per le donne, una per gli uomini, con vari camion messi per traverso, in cui sono sistemati numerosi checkpoint.
Gli uomini armati però non sono più quelli in tenuta dell’esercito, ma quelli di Amal, il secondo partito-movimento sciita libanese, il cui leader, Nabih Berri, è il presidente della camera.
Più andiamo avanti, più mi rendo conto che senza Amid, non avrei fatto più di 300 metri da sola.
Nei checkpoint femminili ci sono delle grandi tende, in cui le donne di Amal, ovviamente coperte di nero per il lutto e appartenenza sciita, ti perquisiscono e guardano il contenuto della borsa.
La mia macchinetta fotografica, non avendo io il tesserino da giornalista, crea qualche problema ma riesco a passare. Il clima non è teso, nonostante vi siano armi ovunque. Si sentono preghiere, bambini che giocano, chiacchiere animate. Continuo a non avere bene in mente in cosa consisterà la processione, avendo capito che versare sangue in sostanza non è ammesso. Ho capito però che Amid è un militante di Amal, altrimenti non sarei mai riuscita a passare. Così, chiedo.
Mi spiega che Hezbollah non ammette sangue, ma il suo movimento si, tanto che negli anni passati, anche lui ha praticato il rito dell’autoflagellazione tagliandosi con un coltello sulla testa, e mi mostra con fierezza la cicatrice tra i capelli.
Mi spiega inoltre che il sangue versato non è solo quello di Husayn, ma che quest’anno rappresenta anche quello delle centinaia di morti in Yemen a causa degli attacchi degli arabi Sauditi, e più in generale il sangue versato dai tantissimi che si arruolano nelle milizie sciite per andare a combattere in Siria, al confine libanese con Israele, in Iraq e ovunque ci sia da difendere la propria fede.
“Quest’anno però donerò il sangue alla croce rossa, il valore forse è anche maggiore.” Mi dice.
Penso. Significa, per come la vedo io, che la manifestazione non ha più un carattere prettamente religioso, ma diventa anche politica. Anzi, più precisamente diventa una combinazione di ideali religiosi, che si fondono con quelli politici, legittimandoli, e legittimando le azioni del partito, la guerriglia, la partecipazione alle guerre in terra straniera.
La battaglia di Kerbala contro il Male, è la battaglia in Siria contro il Male Imperialista americano e sunnita.
Ci sono moltissime persone, probabilmente migliaia. Si beve caffè, si mangia Manaqish per colazione, cioè delle “pizze” molto sottili, condite con formaggio o za’atar.
Io desto poca curiosità in fondo, sono vestita di nero, come loro, sono coperta, ho un viso con tratti più o meno mediorientali, o così mi dicono.
Vedo sul lato destro della strada molte persone che preparano cibo tradizionale Nazri, per poi darlo gratuitamente a tutti i partecipanti. Vedo dei mattoni, con sotto della brace, e sopra pentoloni di un metro di diametro, in cui quella che può sembrarmi una ricca zuppa, viene continuativamente mescolata con dei pali di legno. Si regalano bottigliette d’acqua, succo di frutta, Leban (yogurt salato), biscotti: è tutto per tutti.
La strada è molto lunga, e riesco a superare un buon numero di tende femminili, fino al punto in cui, nonostante l’essenziale mediazione di Amid, non le supero più. Resto 5 minuti di orologio con una donna che parla con me prima, con altre e con Amid poi, perché no, io non posso assolutamente passare.
Me ne chiedo la ragione, sono anche stata fornita di una piccola fascetta gialla e verde di Hezbollah, ovvia garanzia di mimetizzazione tra la folla locale a giudizio del mio accompagnatore. La risposta arriva dopo un chilometro di camminata a ritroso, verso il cavalcavia che abbiamo superato in precedenza.
Forse il mio amico non me lo voleva dire per non mortificarmi, perché non era tanto la macchina fotografica, quanto i 15 cm di polpaccio scoperti, ad aver impedito il mio passaggio oltre quel particolare blocco, gestito da Hezbollah.
Proprio nel momento in cui mi chiedo se riuscirò a vedere parte della processione, ecco che tutto comincia. Passa su una curva, proprio sotto al cavalcavia, e non c’è sangue, come mi era stato detto.
Ci sono invece gruppi di uomini e bambini, che marciano come in una parata militare, ciascuno armato, e con la propria uniforme a rappresentare dove hanno combattuto o combatteranno, mentre cantano inni religiosi e di guerra. Poi bande che suonano, uomini del partito, e religiosi.
Alcune donne piangono, in generale tutti si allineano cantando e urlando slogan in arabo che non capisco. Tutto continua, sono ormai lì da più di tre ore, ho scattato qualche foto, il mio accompagnatore adesso deve andare, e ci incamminiamo verso la macchina.
Durante il tragitto, una ventina di minuti a piedi, raccolgo cibo, perché rifiutarlo sarebbe sconveniente, e i complimenti di una donna sulla cinquantina, che dice prima a me, e poi al mio involontario interprete, che sono molto bella, con i miei occhi verdi, e che secondo lei sono la tipica bellezza libanese.
Ho in mano tre contenitori colmi di quella zuppa che avevo visto preparare andando, acqua e succo di frutta, ma all’ultimo checkpoint mi viene offerto un piatto di riso, con pollo, manzo, frutta secca e spezie, e una bottiglietta di Leban gelato. A questo punto non solo non sarebbe possibile rifiutare, ma sono felice, seduta con Amid sul marciapiede, a mangiare con me questo cibo meraviglioso, all’inizio di questa lunga strada che mi ha onorato di percorrere insieme.