Tempo di lettura: 2 min

testo e foto di Gianrigo Marletta

Avanzavamo con l’acqua fino al petto ed il fango alle ginocchia. I monumenti si lasciavano scoprire solo pochi metri alla volta. Inghiottiti da un buio assoluto si svelavano solo quando la luce calda delle lanterne a gas li illuminava.

Dei monumenti. Dei veri e propri monumenti.

Sotto ad un paesaggio tipico indonesiano: collinare, rivestito di foresta pluviale, fatto di risaie smeraldine a terrazza, di palme, banani e villaggi di contadini – si apre un mondo vasto e completamente oscuro.

La spedizione partì alle sette del mattino. Cinque uomini in tuta da minatore, con le fiammelle delle lucerne a gas ad illuminare la via dal frontalino dei caschi. Una squadra di quattro esperti – più un fotografo – intenta ad esplorare e documentare il sottosuolo di Sukabumi, nella Java occidentale.

Ci calammo con una fune per 25 metri da un buco largo appena uno e mezzo. La corda ci posò in una macro caverna detta “cupola”: uno stanzone di pietra che ricorda molto il Pantheon romano.

Prima di discendere però, pregammo. Un momento di silenzio in cui ognuno chiese al proprio dio di salvaguardare la spedizione. In Indonesia la terra trema costantemente. Quasi ogni giorno, da qualche parte, un terremoto del sesto grado scuote il sottosuolo.

“Ti prego, fa che oggi la terra rimanga immobile”, era la mia preghiera.

Ci calammo al centro della “cupola”. Da qui partiva un reticolato di tunnel e cunicoli scavati dall’acqua nella pietra calcarea. Un tunnel che si estende per quattro chilometri.

L’UNESCO, ci aveva detto il capogruppo, dichiarò Buniayu come il “miglior sistema di caverne nel Sud Est asiatico”; un complesso che conta ottantatre macro caverne ed un migliaio di micro grotte formatesi circa duecento milioni di anni fa. Un’area calcarea che si estende per oltre 200 ettari.

Marciammo in discesa, in direzione del centro del pianeta, fino a raggiungere i 54 metri di profondità. Godemmo della maestosità dei monumenti, apprezzando l’umiltà della natura che li aveva creati e poi nascosti nella completa oscurità.

Il vasto fiume che in origine formò i cunicoli, oggi riposa tranquillo e stagnante in alcuni punti della grotta mentre in altri scivola violentemente precipitando tra le fessure nella roccia.

Le formazioni calcaree e saline modellate dall’acqua, svelano composizioni simili a sculture, fontane, sepolcri, piscine, cattedrali, cupole e colonne.

Lungo i cunicoli e nelle “stanze” l’acqua calcarea forma le stalattiti e le stalammiti. Le prime nascono dai frammenti di calcare lasciati dalle gocce cadenti dalla superficie superiore, allungandole di un millimetro l’anno. Le stalammiti invece sono formate dalle gocce che cadono dalle stalattiti. Goccia dopo goccia il calcare depositato forma dei coni simmetrici e identici a quelli che pendono direttamente sopra.

Le pietre laviche, rotolate fin qui dall’esterno e trasportate dal fiume, aggiungono un tocco di varie tonalità di grigio, altrimenti mancanti.

Fino al 1982, ossia quando il Dottor R.K.T. Kho – assieme ad una spedizione di speleologi francesi – mappò la caverna, nessuno osava addentrarsi nel sottosuolo di Java. I contadini del luogo e i loro antenati hanno da sempre creduto che dentro dimorasse un demone.

Ma ad abitarvi in realtà vi sono solo pochi animali ciechi: pipistrelli, pesciolini, grilli con le antenne lunghe fino a quattordici centimetri – sentori per compensare la cecità – ed un tipo di ragno che, sembrerebbe, a un certo punto della sua evoluzione si sia mischiato con il granchio. Un mondo sotterraneo facilmente paragonabile a quello subacqueo corallino visto dai sommozzatori.

Dopo quattro ore di cammino, di scalata, di strisciata e di marcia rannicchiata, un raggio di luce bianca penetrò dall’alto tagliando in due il nero che imbottiva la caverna. Ci eravamo dimenticati di quanto la vita apparisse più semplice alla luce.  Seguimmo il raggio e sgattaiolammo tra la crepa nella roccia.

Alla vista – tra il bagliore accecante – tornò il verde, lo smeraldo, i banani, le palme e il caldo soffocante. Non lontano si udiva il fruscio di una cascata. Era l’acqua dello stesso fiume che creò le caverne e che adesso si tuffava da un dislivello alto una ventina di metri. Seguimmo il suono scrosciante dell’acqua e raggiungemmo la cascata. Ci lavammo e ci rinfrescammo, ognuno grato al proprio dio per non aver fatto tremare la terra, ringraziandolo per aver creato e condiviso con noi tanta splendida maestosità.

 

Articolo precedenteCota 1000. una passeggiata in autostrada
Articolo successivoGuatemala sin fronteras