testo e foto di Salvatore Landi
Secondo l’antropologo francese Marc Augé i non luoghi sarebbero quei posti come supermarket, centri commerciali, autostrade e varie versioni di Disneyland che si differenziano dagli spazi antropologici intrecciati, invece, con il tessuto del territorio e con le persone che lì vivono. La sostanziale differenza è la creazione di una relazione più o meno simbolica tra individuo e spazio.
A Roma c’è un quartiere che su questo rapporto ha creato un singolare campione urbano, caratterizzato da una forte presenza multietnica e in particolare da un grande mercato che trascende la mera dimensione commerciale.
È l’Esquilino, crocevia di scambi economici e culturali, tra il centro storico e la stazione Termini, dove gli antichi porticati in stile piemontese di Piazza Vittorio ospitano esercizi commerciali della comunità cinese, dove monumenti e basiliche si alternano a edifici di era industriale, dove al posto della Centrale del Latte spunta fuori un pezzo di acquedotto romano e in un ex caserma c’è il più grande mercato multietnico della capitale.
Il mercato dell’Esquilino dall’alba al tramonto diventa un mosaico di attività che coinvolge venditori, acquirenti, trasportatori, inservienti e curiosi.
Al di qua e al di là dei banconi, un’esplosione di varietà alimentari e umane.
Ciò che innanzitutto colpisce è quell’aria un po’ anarchica, propria dei mercati, nei quali sboccia una fiducia data dalla vicinanza ai venditori, a loro volta vicini ai prodotti, un’evocazione di genuinità ormai scomparsa nello sterile acquisto al supermercato o al centro commerciale.
Ma la vera peculiarità è la vastità dell’offerta: ogni reparto, dalla carne al pesce, dalla frutta alla pasta, dalla verdura alle spezie, espone prodotti provenienti da tutto il mondo. Ai nostri cibi mediterranei si affiancano quelli di colture asiatiche, mediorientali e nordafricane. Forme e colori si intrecciano, odori e lingue si confondono, un abbraccio simbolico della forte funzione sociale esercitata da questo luogo.