testo di Mirta Brignone
foto di apertura Azli Jamil (fb: AzliJamilPhotography)
foto esterne di David Tratting (subsquare.at/visual)
Quando si sente parlare di viaggio spirituale non si può far a meno di pensare all’India. Vengono in mente i primi figli dei fiori, che negli anni Sessanta partivano con la corona di margherite in testa per cercare loro stessi sulle montagne o nei deserti indiani. Quest’immagine mi faceva sorridere. Trovavo alquanto banale e scontata l’idea di andare in India per cercare qualcosa, spesso senza sapere nemmeno bene cosa. Mi sono dovuta ricredere. L’India è un paese talmente intenso e pieno di sfaccettature che è difficile non rimanerne colpito e tornare radicalmente cambiato. E non solo per la povertà evidente di cui si sente tanto parlare e che, onestamente, io non chiamerei così. Loro non sono poveri, sono semplici. Sono semplici d’animo e questa purezza fa sì che non siano sempre alla ricerca del consumo, della perfezione o del denaro. Quello che hanno se lo fanno bastare. Danno poca importanza all’acqua calda o all’elettricità e molta alla famiglia, alla religione, alla loro terra. Mother India, come la chiamano loro, è la prima che va rispettata e venerata.
L’INDIA È UN POT-POURRI DI COLORI, ODORI, PERSONE E RELIGIONI TUTTO BEN MESCOLATO E COTTO A FUOCO LENTO, MOLTO LENTO, FORSE TROPPO PER LE PERSONE OCCIDENTALI, ABITUATE A NON STAR FERME UN ATTIMO.
Vivono diversamente da noi, nel loro caos cittadino e nella pace delle montagne, dove tranquillità e spensieratezza d’animo sono sempre presenti. Dopo un mese e mezzo passato nel Nord del paese, toccando Rishikesh e Hardiwar e poi spostandoci nel Rajasthan, ci siamo fermate nella magica Pushkar, la città più sacra di questa regione. È una cittadina piccolissima costruita intorno a un lago sacro artificiale che viene riempito dai monsoni ogni anno tramite delle dighe. Si trova all’inizio del deserto rajasthano, ma è situata nel bel mezzo di una catena montuosa che la rende ancora più incantata. È l’unico posto in tutta l’India ad avere un tempio di Brahama, il dio creatore, uno degli dèi più importanti dell’Induismo. La leggenda narra che la moglie di Brahama, Savitri, offesa dal comportamento del marito, ordinò di non costruire altri tempi oltre a questo in suo onore. E così fu.
La religione in India è ovunque. Le canzoni, le rappresentazioni teatrali, i balletti raccontano le divinità e le loro storie magnifiche fatte di guerre, principesse, demoni e sortilegi. Ci sono rappresentazioni degli dèi in ogni casa: di cartapesta, legno o creta nelle più umili, di marmo, bronzo o argento in quelle più ricche. Quotidianamente gli indiani invocano Shiva per festeggiare, brindare o anche solo per salutarsi. Hanno fede, ma non sono politeisti come pensa la maggior parte delle persone. Dio è uno, ma viene rappresentato in maniere diverse in tutto il mondo, e così anche loro lo rappresentano in milioni di forme diverse. L’importante è avere un credo, e scegliere sempre la strada più pulita perché è quella che ti accompagnerà per tutta la vita. Il famoso karma. E così ho trovato la via pulita anche io.
Dopo quasi venti giorni a Pushkar, Pachota, il mio amico baba mi ha chiesto di partire con lui per una settimana. Ho accettato titubante, perché molte sono le storie di baba che si approfittano degli occidentali chiedendo soldi o favori. Siamo partiti di mattina presto, camminando per una decina di chilometri in mezzo alle montagne, attraversando piccoli villaggi, per arrivare a casa di un altro baba, Aloo Baba. Aloo vuol dire patate, e infatti Aloo Baba mangia solo questi tuberi da non so quanti anni. La sua era per metà casa e per metà tempio, il tutto ricavato scavando dentro una roccia, e circondato da un deserto secco e arido. Siamo rimasti qui per quasi una settimana. Si dormiva per terra all’aperto, l’acqua bisognava andarla a prendere al pozzo con i balti, i secchi, e la luce non serviva; al tramonto, dopo l’ennesimo mantra cantato, si faceva il fuoco, si preparava da mangiare (ovviamente solo vegetariano), e per le dieci di sera si dormiva sotto le stelle. La sveglia era alle quattro. Il tempo di un chai e poi si meditava fino all’alba.
QUESTO, SPIEGANO I BABA, È L’UNICO MODO PER RICEVERE TUTTA L’ENERGIA DEL SOLE, SVEGLIANDOSI E ANDANDO A DORMIRE CON LUI, SURYA, IN MANIERA CHE IL CORPO E L’ANIMA NON SIANO IN RITARDO E QUINDI PIÙ LENTI E STANCHI.
Il resto della giornata si trascorreva dando da mangiare agli animali, come ad esempio ai numerosi pavoni che ci venivano a fare visita, facendo yoga, ma soprattutto pulendo e curando il tempio. Molte persone dai villaggi vicini venivano a far visita ai baba, spesso portando offerte, patate soprattutto, oppure solo per passarvi un po’ di tempo, giocando, cantando o suonando, oppure semplicemente chiedendo consigli. Lì la maggior parte delle persone non parlava una parola d’inglese, e così il mio hindi è migliorato molto. Annotavo tutto su un taccuino per poi ripeterlo. Ma quello che ho davvero appreso è la loro filosofia di vita. Non serve che te la spieghino, la vivi insieme a loro. I baba, con i loro lunghi capelli e barbe, vestiti d’arancione, vivono di tranquillità, di semplicità, di natura e di religione. Lasciano la casa (spesso sono nomadi infatti, non come Aloo Baba), la famiglia, tutti i beni, e vivono senza soldi, perché non ne hanno bisogno: la terra può dare a un uomo tutto quello che gli serve per sopravvivere. Così vivendo, e rispettando animali e natura, cercano di tornare alle origini dell’essere umano. La loro è una scelta, una scelta di rinuncia dei beni materiali per elevarsi spiritualmente e per purificare la loro atma, l’anima. Sono persone molto rispettate per la loro scelta di vita, ma anche per la grande energia che emanano.
Vivendo con i baba ho imparato molto. Tutto quello che dai per scontato nella nostra realtà lì non esiste più, e la cosa più sorprendente è che ti accorgi di non averne veramente bisogno. Non c’è stato un momento di sconforto o di stanchezza, nemmeno una volta ho pensato: ma un bel letto comodo? Una doccia? Un piatto o una forchetta? Siamo noi che ci siamo abituati a oggetti superflui per comodità, pigrizia, o sviluppo (anche se più che sviluppo mi sembra un imbarbarimento) e dando importanza a questi beni materiali ci siamo allontanati da valori come la famiglia, i rapporti umani, la connessione con la nostra persona e il rispetto per la terra. Come mi disse Pachota, ci sono quattro elementi che mandano avanti il mondo, e voi in Occidente non siete più in contatto con nessuno di questi.
Non toccate la terra, portate le scarpe e metri di cemento vi separano da essa. L’acqua dalla sorgente passa attraverso chilometri di tubi o viene imbottigliata in plastica e venduta prima che vi arrivi in mano. L’aria che respirate non è più pura, ma inquinata dalle macchine e fabbriche che avete costruito. Il fuoco, tu non lo sapevi neanche fare un fuoco quando sei arrivata qui. Ed è tutto vero e ti fa pensare. Perché l’uomo occidentale scappa al mare o in montagna in villeggiatura? Perché ha bisogno di stare vicino a questi elementi, e così inconsciamente nei suoi pochi giorni liberi dal lavoro cerca quel benessere che solo il contatto con la terra può dare.
Non so se chiamarlo viaggio spirituale o lezione di vita, ma so di aver compreso e sentito cose che hanno cambiato me stessa e la mia visione. Ho una serenità d’animo che mi rende più sicura e felice. Ho voglia di ritornare a vivere con gente che ride anche se non ha niente, e ti sorride sempre anche se non ti conosce. Ho voglia di tornare dalle persone che mi hanno fatto capire tanto.
IL GIORNO CHE SONO ANDATA VIA, ALOO BABA MI DISSE: TU ADESSO TE NE VAI, MA VEDRAI CHE TORNERAI, PERCHÉ ORMAI HAI CAPITO DI COSA HAI BISOGNO.
Nel mio scetticismo occidentale ho sorriso, prendendo questa frase un po’ sottogamba, ma effettivamente dopo soli due mesi sono di nuovo in partenza.
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