di Luca Salice
foto di Olivier Blaise | fontainebleau–photo.com
e di Claes Skoog
«Eccola Wendy! La seconda stella, poi si volta e via sempre dritto!». Le parole di J. M. Barrie mi riecheggiano in testa mentre dal finestrino dell’aereo inizio a scorgere le prime isole, svelate una a una dalle luci dell’alba. Dopo aver attraversato l’India, dopo i 1600 chilometri di viaggio da New Delhi a Calcutta passando per Varanasi, dopo più di venti giorni di tragitti rocamboleschi con ogni mezzo possibile, finalmente stiamo per approdare in quella che sembra davvero l’isola uscita dal romanzo dello scrittore scozzese, l’isola raggiungibile solo dalla mente libera di un bambino, l’isola che non c’è.
South, Middle e North Andaman sono le tre isole più grandi che formano la spina dorsale dell’arcipelago. Intorno a queste una miriade di altre più piccole, la maggior parte non visitabili. Esistono infatti ancora tribù autoctone che vivono isolate dal resto del mondo, talmente a contatto con la natura che durante lo tsunami del 2004 molte riuscirono a salvarsi seguendo le formiche fino in cima a un monte.
Una calda mattina di febbraio atterriamo a Port Blair, capitale dell’arcipelago, e dopo aver sbrigato le pratiche per il visto (bisogna farne uno ad hoc che non può superare i trenta giorni) ci imbarchiamo su un traghetto dall’aria un po’ fatiscente, direzione Havelock. La nostra casa sarà il Coconut Grove, una ventina di bungalow molto spartani disposti a semicerchio che sonnecchiano tra le palme a pochi metri dal mare. L’atmosfera che si respira è unica, una piccola comunità di viaggiatori provenienti da ogni dove condivide le giornate tra escursioni nella giungla, nuotate, pesca e musica. Molti gli israeliani che viaggiano dopo aver finito gli anni di leva, molti i ragazzi del Nord Europa venuti in India per sottrarsi al rigido inverno, molti i musicisti, pochi gli italiani. Qui si viene anche per staccare dopo un periodo trascorso in India, madre meravigliosa ma nello stesso tempo esperienza forte, intensa al punto che può lasciare spossati. Sull’isola il ritmo è completamente diverso, sincronizzati con la luce del sole si torna al tempo naturale.

Havelock conta diverse spiagge ma sono due quelle che resteranno impresse nella mia mente: Radha Nagar, da tutti chiamata beach n°7, e Elephant Beach. La prima è considerata una delle più belle dell’Asia. Ci si arriva percorrendo un sentiero sterrato che attraversa una foresta di alberi secolari, un labirinto visivo impreziosito dalle orme di elefanti che verso l’ora del tramonto vanno a bagnarsi nelle acque cristalline. La giungla impetuosa lascia spazio a una spiaggia bianca lunga un paio di chilometri, incontaminata, libera, unica. In alcuni tratti sembra che la giungla voglia entrare in mare. Proseguendo oltre si giunge a una piccola laguna incantata, dove l’acqua è più blu del blu e dove, nonostante il cartello di divieto di balneazione causa coccodrilli, molti ragazzi si riuniscono per regalarsi pomeriggi lisergici scanditi dal suono della dub, moderna psichedelia. Elephant beach è tutta un’altra storia. La prima volta che proviamo ad arrivarci ci perdiamo. Al secondo tentativo raggiungiamo quella che ai miei occhi appare come una scenografia di Tim Burton. Trovandosi sul lato dell’isola colpito dallo tsunami la spiaggia si presenta come un enorme cimitero di alberi neri che affacciano su un mare abbagliante, un punto nero in un oceano verde.
Dopo il tramonto la vita si sposta dalle spiagge al paese, paese per modo di dire. Bancarelle, sigarette, candele, incenso e baracchini in cui cucinano pesce, riso e verdure. A quest’ora poi si possono incontrare viaggiatori da tutto il mondo e spesso si finisce a spendere la notte raccontandosi esperienze di viaggio. Cullati dalle amache delle guest house parti di umanità si incontrano e si scambiano esperienze e consigli, si scambiano vita. Voci soffuse che bisbigliano nell’ombra, i volti appena rivelati dalla luce delle candele.
Chi invece si affaccia in spiaggia nel cuore della notte si trova davanti uno spettacolo unico. La marea, ritirandosi, lascia sul bagnasciuga un tappeto di plancton, che illuminato dai raggi lunari prende una colorazione fluorescente. Sembra di avere un cielo stellato ai propri piedi. In queste ore regna il silenzio, tutta l’isola sembra sospesa in un sonno profondo, persino gli uccelli smettono di cantare. Verso le cinque i primi raggi di sole richiamano in spiaggia i patiti dello yoga. Soli o in piccoli gruppi danno il benvenuto al nuovo giorno. Noi, a differenza loro, il buongiorno lo diamo verso l’ora di pranzo.
In pochi giorni veniamo completamente assorbiti dall’isola, in una condizione di serenità quasi fanciullesca. La mente è libera, i pensieri non più offuscati dalla quotidianità cittadina diventano chiari e solidi. La sensazione di benessere e connessione è grande. È una totale disintossicazione dalla realtà nella quale siamo abituati a vivere, spesso addomesticati. Questo angolo di terra, così bello e così spartano non ha ancora ceduto al turismo di massa, quello che distrugge i paesaggi e lo spirito dei luoghi.
Senza neanche accorgercene ci ritroviamo sul molo insieme a molti altri, gli sguardi malinconici ma appagati. È ora di andare, e mentre il traghetto si lascia alle spalle Havelock sorrido pensando a come è facile tornare bambini in luoghi come questi.
«Dovete fare pensieri dolci e meravigliosi», spiegò loro Peter. «Saranno loro a sollevarvi in aria».