Abéné è uno di quei luoghi che ti entrano dentro, che ti scaldano il cuore, e ti curano l’anima. Al mio rientro dal Senegal mia sorella Sabrina mi ha chiesto se avessi il “mal d’Africa”, e ora a pensarci bene credo che quel commento un po’ scherzoso non sia stato del tutto infondato. È anche vero che ho spesso e volentieri un tremendo “male” di molti posti in cui ho viaggiato e vissuto esperienze intense nella mia vita.
Come dice la mia amica Carmen, il titolo delle nostre vite di viaggiatrici e incurabili sentimentali potrebbe essere benissimo eterna saudade, ovvero una inguaribile e profonda nostalgia cronica di tutti i vari posti in cui siamo state e in cui abbiamo creato legami profondi. Non so se ho il “mal d’Africa”, ma Abéné e il Senegal già mi mancano da morire. Arrivo a Dakar un venerdì sera di metà febbraio, e la città mi accoglie con il suo caos allegro di carretti trainati da asini, capre, galline, auto, moto e pedoni tutti mescolati per le strade un po’ polverose. Esco dall’aeroporto sorridendo, quasi correndo e saltellando come una bambina, sono in Africa! Sono ospite in casa di una sorella di Kaoussou, il maestro di ballo con cui proseguirò il viaggio verso il sud del paese. Al mio risveglio il mattino seguente trovo la casa invasa da un via vai di gente e un allegro vociare, non capisco nulla di chi è chi, chi è figlio, fratello, cugino, tutto si mischia. Una marea di bambini e di altre persone delle più svariate età, tutti facciamo colazione attorno a un tavolo enorme, con una montagna di baguette, ci si passa a turno il burro e il coltello per spalmarlo, e a cena mangiamo di nuovo tutti insieme da uno stesso enorme vassoio.
È la famiglia “elastica”, la famiglia africana, come dice il mio maestro Kaoussou. Il viaggio da Dakar alla Casamance lo facciamo in un auto da sette posti, attraversando il Gambia. Alla frontiera e al passaggio del fiume Gambia in traghetto aspettiamo più di tre ore, tra controlli ai posti di blocco e l’attesa finché il nostro autista riesce ad imbarcare l’auto. Mentre aspettiamo, beviamo caffè col latte in polvere e pranziamo con pane e uova sode. Intanto guardiamo la vita che ci scorre davanti, ed è meglio della televisione: la lunga fila di stand di cibo, anche se di cibo ce n’è ben poco, le donne con gli abiti colorati, il bimbo che si ferma impietrito e curioso a guardare noi bianche, la sabbia rossa, le venditrici di arance, gli uomini con le tuniche lunghe fino ai piedi.
La Casamance ci accoglie a sera dopo 12 ore di viaggio, il villaggio di Abéné ci aspetta tranquillo e immerso nella natura. Qui passiamo due settimane di pura felicità. Siamo tre ragazze europee, i percussionisti, il maestro di danza tradizionale africana Kaoussou, i ragazzi della cucina, e tutti gli altri abitanti che incontriamo quotidianamente in paese. Viviamo in comunità, mangiamo tutti insieme, alla sera scaldiamo l’acqua sul fuoco per lavarci. Le notti di Abéné sono fresche, c’è il vento e si sente il rumore dell’oceano. Ogni sera dopo cena camminiamo per il villaggio senza elettricità, solo con la luce delle nostre torce, attraversando sentieri di sabbia. Le serate nei vari locali all’aperto sparpagliati per il paese scorrono al ritmo delle percussioni dal vivo, della musica reggae, dancehall, mbalax, coupé-décalé. Balliamo e ridiamo, fino a non poterne più, e poi di nuovo è mattino, e si ricomincia da capo.
Le prove di ballo, l’ora di percussione, il pranzo in comune, ancora prove di ballo, e così via. È povera la gente di Abéné, non ci sono quasi auto, la vita scorre tranquilla, i bambini sorridono e ci chiamano toubab, non c’ è molto da fare a dire il vero, ma il suono dei tam-tam riecheggia sempre nell’aria, tutti si conoscono e si salutano, e regna un’atmosfera di calma e di pace.
Siamo ogni giorno più stanchi, ma durante le prove ridiamo e ci divertiamo come dei pazzi. Ad assistere, suonare e supervisionarci dall’alto della sua esperienza c’è anche Maître Laï, l’anziano maestro di Kaoussou. Malgrado la sua età, ha ancora energia da vendere e un entusiasmo senza limiti. Ha gli occhi che gli brillano e il sorriso sempre stampato in faccia, è uno spettacolo vederlo provare e discutere e ridere e ricordare i tempi andati con il suo allievo Kaoussou, che ora è a sua volta il nostro maestro. Gli vengono in mente in continuazione nuove coreografie, si alza, si anima, gesticola, ride, per poi dimenticarsi subito dopo delle sue idee. Si risiede il maître, e insieme agli altri musicisti riprende a suonare, e noi balliamo al ritmo dei loro djembé. Balliamo rivolti di fronte a loro, è uno scambio, un dialogo tra ballerini e musicisti. Una sera balliamo in spiaggia, e d’improvviso si aggiungono altri giovani del villaggio, qualche turista applaude, ridiamo e sbuffiamo allo stesso tempo perché nella sabbia è troppo difficile ballare e abbiamo i muscoli in fiamme, sembra di avere le zavorre.
Arriva il giorno dello spettacolo e noi europee ci agitiamo come bambine. Dembo, uno dei fratelli minori di Kaoussou, ha preparato pure i volantini per pubblicizzare l’evento, da giorni ormai sono affissi agli alberi e a qualche muro del villaggio: “Last night show: Kaoussou et ses stagiaires”. Durante l’esibizione il percussionista suona troppo veloce rispetto alle prove, sbagliamo qualche passo, andiamo nel panico, ci arrabbiamo, ma subito dopo sorridiamo di nuovo, e continuiamo a ballare con tutta l’energia che abbiamo in corpo. Il pubblico acclama, qualche turista e tanti giovani del villaggio. Il maître è felice, ha invitato tutti i suoi compari per venire a vederlo suonare. Non ce le scorderemo facilmente queste notti di Abéné.
Quando un amico mi chiede che cosa mi sia piaciuto di più del mio viaggio in Africa, gli rispondo quasi senza pensarci: il cielo. Il cielo di Abéné, così pieno di stelle che così bello non l’avevo visto da secoli. E così ogni sera, dopo ore di balli sfrenati, finisco sempre per inciampare, perché cammino nella sabbia con il collo per aria, guardo le stelle, e mi sento felice.
di Sara Negro
Foto copertina di Catherine Avak