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La prima immagine che si incontra entrando nell’ “aldeia” di Sangradouro, in Mato Grosso, è una macchina carbonizzata che dorme silenziosa, facendo la guardia ad una Madonna scrostata ed annerita dal tempo. Le case rotonde costruite dai salesiani hanno tegole rosse e mura bianche, ma ognuna è affiancata da strane capanne barcollanti di legno e paglia. I cani randagi vagano in branco come lupi affamati tra i rifiuti sparsi sulle strade sterrate. La puzza fortissima mi ricorda che gli è stato dato il cemento ma non i bagni. Le parabole della televisione, ovviamente gratuite, spuntano in ogni angolo come funghi. Una donna cammina con il cesto tipico che pende dalla fronte fin dietro la schiena, portando un lettore dvd sotto il braccio. I bambini corrono scalzi e nudi, ma non amano farsi fotografare. Ora che guardo meglio, appena alzo l’obiettivo tutti distolgono lo sguardo, come se cercassero di sparire. “Gli rubi l’anima”, mi dice il mio accompagnatore.

Gli indios Xavantes hanno contatti con il resto della popolazione brasiliana da circa cinquant’anni. Erano nomadi dallo spirito guerriero che si spostavano per cacciare nelle regioni centrali e che si scontrarono con i coltivatori locali quando iniziò la coltivazione intensiva di riso e semina nelle terre che un tempo appartenevano ai Bororo, i nativi della regione. La riserva di Sangradouro quando vide apparire i primi Xavante era una missione salesiana che si occupava dell’educazione degli indios. Nel 1930 circa arrivarono alcuni di loro vestiti solo di frecce che chiedevano aiuto. Non riuscivano più a trovare il cibo attraverso la caccia poiché le terre erano o in mano dello Stato o in quelle dei fazendeiros, i grandi proprietari terrieri. Con il passare degli anni la FUNAI (Fundaçao Nacional do Indio) creò i confini della riserva e costruì le strade per collegarla con le città vicine.

Oggi, “grazie” alla FUNAI, gli Xavantes hanno la carta d’identità segnata da nomi portoghesi e cognomi impronunciabili nella loro lingua d’origine. Hanno la possibilità di votare, senza avere nemmeno il miraggio culturale del significato della parola “Stato”. Hanno una pensione dalla nascita alla morte che permette loro di avere la minima sussistenza necessaria per vivere senza lavorare, senza coltivare i campi, senza cacciare.

Oggi gli Xavantes, nonostante siano cittadini brasiliani, qualunque reato commettano non vengono messi in carcere, come se non fossero capaci d’intendere e di volere. Nonostante possano votare vengono corrotti dai politici, vengono pagati dai candidati in cambio di voti. Nonostante abbiano una “pensione a vita” sono odiati dalla popolazione brasiliana perché sono visti come nullafacenti. E lo sono. Il problema è che nessuno di loro l’ha scelto. Sono stati catapultati violentemente in meno di mezzo secolo in una società già formata, quella che noi oggi conosciamo come moderna. Come potevano ambientarsi nella globalizzazione con l’arco e le frecce?

La FUNAI, invece di proteggerli, di alleviare gli sconvolgimenti che questo passaggio avrebbe provocato loro, non ha fatto altro che aumentare il distacco, la reclusione, il rifiuto delle tradizioni e quindi anche la spaventosa rassegnazione che si legge sin troppo chiaramente negli sguardi degli Xavantes. Li hanno resi cittadini brasiliani sulla carta, sperando in un’integrazione spontanea e apparente, ma sulla terra non sono altro che emarginati, poveri, persone marcate a vita dal pregiudizio.

Il patrimonio culturale degli Xavantes è semplice e ben conservato in un piccolo museo all’ingresso dell’ “aldeia”. Frecce ed oggetti rituali s’intravedono appesi alle pareti delle case, a fianco di calendari con l’immagine di santi cattolici e di Nossa Senhora Aparecida. Le abitazioni delle famiglie sono disposte a semicerchio, divise da una linea immaginaria che separa due gruppi di discendenza. Ciascun gruppo ha un antenato che determina i legami sociali tra i membri di ogni clan. L’etnìa Xavante è esogama, quindi i due gruppi si scambiano doni, beni e credenze tramite il matrimonio. Inoltre hanno le caratteristiche di essere patrilineari ma matrilocali.

Tra tutti i riti di passaggio quello più praticato  è il “Wapté Mnhono”, ovvero l’iniziazione dei giovani Xavantes. Il rito ha inizio nel momento in cui gli anziani decidono di far entrare i ragazzi nella “Ho”, la casa in cui gli iniziati trascorrono i cinque anni prima del rito finale, a stretto contatto con loro, e quindi con la parte più viva delle tradizioni. La “Ho” di Sangradouro è una casa rotonda, leggermente più grande delle altre. Entrando sono riuscita a scorgere una ventina di materassi anneriti dallo sporco sparsi sul pavimento, e qualche ragazzo che ascoltava musica anni ’90 a tutto volume, trasmessa da una piccola radio portatile. La conclusione del rito è la foratura delle orecchie con un sottilissimo stecco di corno, a cui segue l’applicazione di un piccolo pezzo di legno cilindrico, che rappresenta la donna e quindi l’età da marito.

La verità degli Xavantes è che sono soli. Soli contro il mondo, soli nella lotta per diritti che non conoscono, perché nessuno glieli ha mai mostrati. Sono soli contro una società che li sta uccidendo a colpi di cachaça, di elemosina, di diabete e di endogamia.

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