testo e foto di Roy Halstead
Istanbul, città dalle mille anime, e dai mille volti, scandisce i suoni di un passato prossimo e remoto attraverso i ciottoli delle sue strade e i suoi caffè. Teatro di mille passaggi, anime cristiane, musulmane, atee, si sono disputate il controllo di questo grembo di terra, tagliata da tre lingue d’acqua che collegano mille mondi e realtà diverse. Istanbul incastonata in una posizione strategica, Cerbero di due mari. La torre di Galata, costruita dai mercanti genovesi, funge da occhio onnipresente sul mare di Marmara e la gola del Bosforo, unica via marittima per accedere al Mar Nero. Oggi si possono scorgere petroliere maltesi, russe, italiane e greche solcare il mare, dirette in diverse direzioni con i loro preziosi cargo. Centinaia di anni or sono, gli stessi mari furono teatro di titanici scontri fra opposte fazioni.
E proprio accanto all’inconfondibile silhouette della vecchia torre d’osservazione, seduto nel mitico caffè Kornak, annidato nei meandri della vecchia Galata, lo sguardo si perde nell’abisso composto dalle mille luci del tramonto. La vista di Istanbul, solo seicento anni addietro, sarebbe parsa ben diversa rispetto alla moderna metropoli stagliata dinnanzi all’orizzonte. I profili dei minareti, fugaci ombre che tracciano l’orizzonte rosso ocra, riverberano il richiamo alla preghiera. Il calore del Chai si propaga nelle mani del vecchio funzionario dall’abito stazzonato seduto alla mia sinistra.
Il richiamo del muezzin riecheggia attraverso le labbra dell’anziano, che mirando l’orizzonte attraverso le due feritoie che racchiudono gli occhi incastonati in un nido di rughe, scruta le ultime luci del tramonto. Insieme ad altri ospiti del caffè, mi accingo ad ammirare lo splendido panorama dal balcone improvvisato, grazie ad un probabile fatiscente condono degli anni ‘70.
Provo a rammentare gli innumerevoli tramonti, Goa, Masada, Ouarzazate, che passano veloci nella mente, come intoccabili fantasmi situati in un angolo della testa, spenti, d’innanzi all’avvento di nuovi crepuscoli. Il Chai, o il caffè turco, diventa inseparabile compagno, da gustare in un momento di riposo, dopo intense giornate passate a setacciare le Istanbul di ieri e di oggi. Il caffè Kornak non serve alcolici, per scelta personale, mirata a evitare eventuali schiamazzi notturni dovuti a ipotizzabili sbornie. In compenso offre un menu assortito, proponendo un ventaglio di pietanze turche da gustare nel salone interno color mogano.
La cultura del caffè a Istanbul è radicata profondamente nell’animo ottomano. In questo ponte tra oriente e occidente, i luoghi di ritrovo e di aggregazione offrono tuttora blandizie di ogni genere all’ospite che cerca ristoro.
Il poco distante mercato del pesce, ai piedi di Galata, oggi separa il quartiere più popolare dalla salita che porta all’Istiklal Cadesi (viale Indipendenza), l’Oxford Street di Istanbul. Nota all’inizio del ‘900 come Grand Rue de Pera. Qui i mercanti europei si amalgamavano ai commercianti orientali venuti a barattare le spezie a buon mercato. “Pera”, termine greco per “fuori”, che oggi viene chiamata Galata, è la parte più occidentalizzata di Istanbul. Si narrava una volta che quando le lampade si spegnevano nella reazionaria Sultanahmet, le luci di Pera brillavano fino all’alba.
Il gran caffè Markitz, ex caffè Lebnon, era centro di questo via vai, e sede di piacevoli incontri, dove tra un baklava e un narghilè si stipulavano diversi affari. Oggi rimane solo un pallido fantasma di ciò che era il rinomato caffè d’inizio secolo, ma vale la pena entrarvi solamente per ammirare le decorazioni Art Deco anni ‘30.