di Francesca Rosati
È grigia Detroit. Grigia di cemento e di grattacieli e di palazzi abbandonati, grigia di smog. La sua storia invece è sempre stata o bianca o nera, senza mezze misure. Da città simbolo del sogno americano in quanto capitale dell’industria automobilistica statunitense, si trasformò alla fine degli anni Sessanta in città fantasma per via della crisi industriale, delle tensioni razziali e delle rivolte del ’67 durante le quali venne messa al rogo e devastata. Fu un’esplosione, e la città non si riprese più. Metà della popolazione, rimasta senza lavoro, fece i bagagli e se ne andò, lasciando alle sue spalle lotti vacanti e strutture abbandonate, covi perfetti per lo sviluppo di violenza e criminalità. Da allora i governi non hanno fatto nulla di concreto, limitandosi a fare quello che gli riesce meglio: promettere. Promettere nuovi impieghi, nuove costruzioni, programmi riabilitativi che non sono mai arrivati. Oggi come allora c’è da aver paura a Detroit. La città più di qualsiasi altra rappresenta i ghetti americani, la crisi economica, il traffico di droga, la violenza, gli omicidi. Le sue strade sono crudeli, cattive. Chi viene da fuori per tifare i Lions va alla partita e poi si sbriga a riprendere la macchina e a tornare sull’autostrada, per andare via, lontano, e subito.
Ma in questo grigiore una macchia colorata c’è. Nella east side, a Heidelberg Street, si staglia un paradiso bizzarro che non può lasciare indifferenti: entrarvi significa intraprendere un viaggio in cui l’inconscio ha la meglio sul conscio. Le case son dipinte e decorate con oggetti scartati o gettati nell’immondizia che riprendono vita e soprattutto rianimano il quartiere. E questi stessi oggetti si tramutano in istallazioni da Paese delle Meraviglie. Vestiti usati e vecchi peluche vengono spolverati e colorati e poi appesi a porte, finestre, tetti. Macchine in rottami diventano vasi di fiori variopinti. Porte e lamiere di edifici abbandonati si trasformano in sculture astratte o realistiche, a forma di piante, di animali, di persone. E le persone, quelle vere, restano a bocca aperta di fronte a questo capolavoro vivente che coglie di sorpresa: cammini per le strade di una città grigia e semideserta e tutto a un tratto ti ritrovi in un mondo surreale dove la spazzatura diventa magia.
Tyree Guyton, il papà del Heidelberg Project, è oggi un pittore e un artista riconosciuto a livello mondiale, ma venticinque anni fa era un ragazzo come tanti che tornava a casa dopo il servizio militare. Un ragazzo che da bambino aveva visto la sua città bruciare e i suoi tre fratelli morire inghiottiti dalla strada. Un ragazzo cresciuto troppo presto che ritrovando il suo quartiere in uno stato di degrado, povertà, apatia e criminalità diffusa scelse di reagire e impugnò deciso la sua di arma, un pennello. Insieme al nonno dipinse una casa a pois e poi, con l’aiuto dei bambini del quartiere, pulì gli edifici abbandonati, raccogliendo il materiale per poi trasformare le strade, i marciapiedi, le abitazioni, gli alberi in opere d’arte. Come in una sinfonia.
Ma come tutte le rivoluzioni che portano un cambiamento e che svegliano le coscienze, il progetto non ha avuto sempre vita facile. Nonostante la fama e l’appoggio di tante persone, fu parzialmente demolito nel ’91 dal sindaco di allora, Coleman Young, e poi di nuovo nel ’99, sebbene Guyton avesse ottenuto numerosi riconoscimenti e premi istituzionali e il quartiere fosse visitato da centinaia di migliaia di persone ogni anno. Chi è al potere, si sa, preferisce sudditi dalle menti sopite e facilmente manovrabili piuttosto che persone vive, pronte al cambiamento e inclini all’ispirazione.
Il Heidelberg Project è questo che fa: apre le menti, dà da pensare, propone un’alternativa valida alla violenza e al degrado, offrendo delle soluzioni. È quindi arte nella forma più pura perché è catalizzatrice, non mera estetica. Ogni installazione racconta una storia sulla società: c’è la casa “party animal” che celebra gli orsetti lavatori, le volpi e i fagiani, tutti quegli animali che vivono fianco a fianco con gli abitanti di Detroit. C’è il lotto “OJ – obstruction of justice” (impedimento della giustizia) e il lotto dedicato all’industria automobilistica, dove tutto ha le ruote. C’è la casa a pois, che rappresenta le divergenze della comunità di Detroit, e ci sono i box informazioni creati dai bambini. Perché è a loro che si rivolge soprattutto il progetto, alle nuove menti, al nostro futuro. A loro, che quando camminano per andare a scuola sono circondati da case bruciate, crimine e degrado, Tyree Guyton ha offerto una nuova prospettiva non solo da vedere. Bambini e ragazzi ci vivono, ci giocano, ci crescono e imparano ad apprezzare e a sognare qualcosa di diverso. E magari un domani pretenderanno qualcosa di più dalle istituzioni.
In questo senso il Heidelberg Project costituisce un esempio di come la comunità possa prendersi cura dei suoi membri laddove le istituzioni rimangono immobili a guardare il degrado su cui troppo spesso speculano. È un’organizzazione nata spontaneamente che ha come obbiettivo quello di migliorare la vita delle persone e salvare un quartiere dimenticato attraverso l’arte. Perché tutti hanno il diritto di vivere nella propria comunità, di sognare un cambiamento all’interno invece di cercare sempre l’altrove, la via di fuga. E la missione è quella di arricchire un domani anche la comunità più allargata, tramite le persone che già oggi stanno cambiando le loro vite grazie a questo progetto.
Staremo a vedere. Intanto oggi parlano i dati: in questi ultimi venticinque anni, Heidelberg Street non è stata più teatro di crimini seri. I suoi abitanti, persone che prima non erano mai entrate in un museo, sono vicini all’arte, partecipano al progetto, ai suoi programmi, festival e workshop. Vi è la possibilità di lavorare e soprattutto di passare il tempo, riflettere e creare in uno spazio all’aria aperta, interagendo con persone che vengono da tutto il globo per ammirare questo angolo di cielo nell’inferno.
Il Heidelberg Project è una colla. Unisce e coinvolge le persone, i loro pensieri, i loro sentimenti. È una calamita, che ti costringere a tornarci per vedere a che punto è arrivato. Perché una volta che entri, non lo puoi più dimenticare.