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testo, foto e video di Tommaso Martelli

14 giorni, 1 Jeep, 1700 km, 9 ore di fuso orario, 4 voli in aereo, 3 amici, 3 GoPro, 1 Nikon, 1 snowboard, 2 paia di sci, 20 run di cat-skiing, 15 voli in elicottero e tanta neve. Ogni passione, ogni sport ha il proprio luogo sacro. Le Hawaii per il surf da onda, l’Himalaya per il trekking e le scalate, l’Australia per le immersioni, New York per la maratona, la Tanzania per il safari… Sono luoghi che rappresentano il coronamento del sogno di chi coltiva una passione. La Columbia Britannica è  la Mecca del freeride. Qualcuno si chiederà perché arrivare fino in Canada quando le nostre Alpi offrono scenari mozzafiato e luoghi incantati. Quel qualcuno non è ossessionato dalla neve. In Canada gli spazi sono infiniti, la neve è incontaminata, lì esiste, si respira e si assorbe la filosofia del freeride, oltre ad una radicata “etica della montagna” nel rispetto delle persone e dell’ambiente. In Canada la montagna è una compagna di viaggio, non una destinazione. Questi i motivi che ci hanno convinti ad affrontare un viaggio di 14 ore, carichi di attrezzatura che non ha esattamente l’ingombro e il peso di una valigia per una vacanza rilassante. Cercavamo la famosa “polvere”, più di qualsiasi altra cosa volevamo poterla tracciare profondi e leggeri. Così eccoci finalmente su quell’aereo diretti a Calgary, che fino a qualche anno prima ricordava solo le Olimpiadi invernali del 1988 che regalarono la prima medaglia olimpica ad Alberto Tomba. E proprio da Calgary inizia il nostro viaggio on the road nella British Columbia. La prima tappa è Fernie, un tipico paesino delle Rocky Mountains dove oltre a qualche negozio di sci, un pub e qualche piccolo hotel non c’è assolutamente niente. I primi due giorni li passiamo così, a riscaldarci e a testare la famosa neve canadese. Il comprensorio è piccolo ma ci rendiamo subito conto dell’immensità degli spazi che ci circondano, le montagne non sono altissime ma cariche di neve. Da Fernie poco più di 320 km ci separano dalla prima vera tappa del nostro viaggio: Nelson e due intense giornate di cat-skiing.  Cat-skiing significa raggiungere una vetta a bordo del gatto delle nevi in luoghi in cui gli impianti di risalita non esistono: in questo modo si riescono a guadagnare posizioni altrimenti inaccessibili. Nell’heli-skiing, invece, il tutto avviene a bordo di un elicottero. Nelson è un paese vivo, giovane, pieno di ragazzi provenienti soprattutto da Stati Uniti e Canada che lo hanno eletto a una delle principali mete del freeride. Si respira da subito un’aria carica di positività e spensieratezza. E’ proprio qui che incontriamo Trevis Rice, una delle leggende dello snowboard mondiale, in quei giorni impegnato nel contest più famoso, il Red Bull Ultra Natural. Dormiamo in un piccolo hotel fuori dal paese, intorno a noi solo quattro case sommerse dalla neve. A Ymir si trova  il Wildhorse CatSkiing fondato dalla leggenda del freeride Trevor, detto “uomo boccaglio” perchè negli anni Ottanta una delle prime riviste di settore degli Stati Uniti pubblicò una copertina con Trevor impegnato in una discesa sommerso da una nuvola di neve da cui spuntava solo la sua testa con un boccaglio da sub. All’epoca Trevor era l’impiantista dell’unica seggiovia del comprensorio di Nelson (White Water) con un singolare contratto di lavoro che prevedeva che in caso di una grande nevicata, egli potesse essere il primo della mattina a salire e scendere segnando così la prima traccia.

Il pensiero di passare due giornate immersi nella neve con una leggenda del freeride ci tiene svegli nonostante le 9 ore di fuso orario. Per due giorni dormiamo e mangiamo in una casa isolati dal resto del mondo in compagnia di un gruppo di neozelandesi. In testa un solo pensiero: scegliere la propria traccia in mezzo ai boschi di Wildhorse e cercare di partire per primi.

 

Da Nelson ci spostiamo verso nord. E’ il nostro giorno di riposo, quello che ci serve per far riposare le gambe, che dopo due giorni di discese senza sosta iniziano ad essere stanche, nonostante i mesi di allenamento prima di partire. Guidare l’auto in Canada è un’altra esperienza unica, da provare. Le montagne sembrano non finire mai e i paesaggi sono esattamente quelli dell’immaginario comune di una terra dalla natura così estrema. Guidiamo per 250 km passando attraverso piccole strade di montagna, tratti di strada a scorrimento veloce, paesaggi assolati e nevicate fitte fino ad arrivare al molo di un traghetto dove la strada si interrompe. Per attraversare i laghi in British Columbia non esistono infatti ponti ma degli spartani quanto funzionali traghetti che ci regalano quel tocco in più di avventura. Arriviamo a Revelstoke e una leggera nevicata ci fa subito ben sperare per quanto avremmo trovato il giorno seguente. Il silenzioso rumore della neve che cade è qualcosa di meraviglioso e ipnotico, indescrivibile a parole. Ma quello delle pale dell’elicottero che ti sta venendo a prendere per portarti nel mezzo del nulla, per quanto meno poetico, è decisamente più esaltante. A Revelstoke veniamo accolti dal calore e dalla gentilezza dello staff di Selkirk Tangiers, un’organizzazione che si occupa da anni di heli-ski in Canada. Anche qui viviamo isolati per tre giorni nel loro quartier generale, lo splendido hotel Hillcrest che ci offre tutti i comfort di cui abbiamo bisogno in vista del prossimo tour de force e una vista mozzafiato sulla valle del fiume Columbia. Si respira un’aria unica e tutti gli ospiti dell’hotel sono come noi. Maniaci, fanatici, dipendenti, ossessionati dalla neve, o meglio dalla “polvere”. Per tutti noi qui non contano la comodità del letto, la qualità del cibo, il servizio dell’albergo. Questo viaggio non è vacanza, ma febbrile ricerca della neve migliore e desiderio spasmodico di buttarsi tra discese e boschi sperduti tracciando scie dove nessuno è mai stato, respirando aria gelida che nessun altro sta respirando, unici testimoni dei suoni che solo la montagna produce. Selkirk Tangiers ha un terreno a sua esclusiva disposizione di 2000 km quadrati, l’equivalente pressappoco della Val D’Aosta. Il tempo passato dentro Hillcrest ruota tutto in funzione della giornata successiva: briefing, sicurezza, controllo del meteo e delle discese che affronteremo. Il nostro livello di eccitazione arriva al culmine quando tra gli ospiti dell’hotel scorgiamo Chris Rubens, Mark Abma e Kaj Zackrisson, impegnati nelle riprese di un video della Salomon, loro sponsor. Per chi non parla la lingua del freeride, è come se partecipando ad un torneo di calcetto amatoriale, ci si trovasse di fronte ad una squadra avversaria composta da Messi, Ronaldo e Neymar… Dopo tre giorni di heli-ski, ripartiamo ancora più stanchi ma visibilmente carichi, alla volta di Golden. Golden è uno dei paesi più brutti della British Columbia, ma con uno dei resort sciistici migliori per il freeride. Passiamo un giorno defaticante a cimentarci nelle discese dei cosiddetti bowl, aree riservate al freeride all’interno del comprensorio. Da Golden partiamo alla volta della nostra ultima tappa che ci riporterà a Calgary. Banff è una vera e propria cittadina, siamo tornati nello stato dell’Alberta e qui la neve non è più come quella trovata fino a pochi giorni prima. Banff ha una posizione geografica che la ripara dalle precipitazioni provenienti dall’Alaska, le stesse che scaricano metri di neve sulla British Columbia. In compenso le montagne sono di una bellezza disarmante, simili per conformazione alle nostre Dolomiti, e il freddo qui è davvero quello che ti aspetteresti di trovare in Canada. Le nostre tre giornate di sci si dividono tra i due comprensori di Banff, Sunshine Village e Lake Louise. Anche qui le opportunità per il freeride non mancano. Avevamo sentito parlare della famosa discesa chiamata “Delirium Dive”, sostanzialmente un versante della montagna lasciato a completa disposizione dei freeriders. Ad un’unica condizione: attraversare un paradossale cancello di controllo nel mezzo del niente ed essere in possesso dell’attrezzatura di sicurezza. Le condizioni della stabilità del manto nevoso non sono delle migliori a causa della nevicata della notte precedente, ma appena ci giunge la notizia che gli snow patrol hanno messo in sicurezza e aperto la discesa, decidiamo senza pensarci due volte di “tirare” qualche bel curvone profondo in questo memorabile fuoripista. Trascorriamo così gli ultimi giorni della nostra avventura. L’ultimo giorno è un lento e triste rientro verso Calgary. Nei poco più di 150 km che ci separano dall’aeroporto guardiamo malinconicamente scomparire negli specchietti retrovisori della nostra jeep le Rocky Mountains insieme alla loro “deep powder”, ai sorrisi delle persone incontrate e alla consapevolezza di aver trascorso due delle settimane più belle e intense di sempre e di aver percorso un viaggio che è stato anche un pezzo della nostra vita di “malati del freeride“.

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Redazione the trip
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