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testo di Stefano Miraglia
foto di Andrea Dapueto (andreadapueto.it)

HONG KONG:
MEMORIA E IMMAGRAZIONE
Voglio andare a Hong Kong prima del 2046. Non sono mai stato in Cina, ma sono molto legato alla cultura cinese, quella che riesce ad arrivare in Italia attraverso la gente comune, i sinologi, la fotografia e soprattutto il cinema. Nella fotografia analogica, il contatto è il foglio, poco più grande di una pagina A4, dove vengono impressi i negativi, in formato originale e con tanto di strisce di pellicola laterali, su fondo nero. L’immagine che ho della Cina è proprio quella di un provino a contatto di un fotografo non-professionista con una forte fascinazione per le immagini in movimento: la Cina è l’immagine in movimento, ma è come se io avessi ancora solo una vecchia macchina fotografica. Le strisce della pellicola sono accompagnate dal nero del resto del foglio: il nero è la distanza tra me, giovane europeo cresciuto in un paese che sta affondando, e la Cina, terra di cui noi occidentali conserviamo in default immagini di paura e desiderio, di pareti di roccia infinite, di vestiti sintetici, di vie della seta, di oggetti di plastica senza il marchio CE sequestrati, di libretti rossi. Gli scatti possibili sono sempre pochi rispetto alla vastità della visione, ed ecco il primo scatto: inutile; il secondo: fuori fuoco; il terzo ha un bel soggetto ma è da riquadrare; il quarto ti affascina e non ricordi più dove l’hai scattato; il quinto è perfetto, il soggetto è già stato fotografato milioni di volte, ma non potevi non scattare anche tu. Il sesto è un altro tassello che si aggiunge alla fascinazione per un paese che non potresti mai abitare: troppe differenze. E così fino all’ultimo scatto. Molti momenti bassi, incerti, apparentemente incomprensibili. Pochi momenti di bellezza comprensibile e lancinante. E il resto è immaginario.

La città-isola di Hong Kong riempie il mio immaginario da qualche anno ormai. A Hong Kong non si vive come nel resto della Cina. Diventata una colonia britannica con il trattato di Nanchino dell’agosto 1842, l’isola, assieme alla penisola di Kowloon e alle aree a essa limitrofe, è stata amministrata da un governatore britannico come una colonia per più di centocinquanta anni. Pur non attribuendo pieni diritti politici ai cittadini, la dominazione inglese concesse libertà individuali molto ampie, a livello economico e di tutela dei diritti e delle libertà, garantite dal common law britannico.

Il processo di riacquisizione di Hong Kong da parte della Repubblica Popolare Cinese comincia nel 1984, anno dell’accordo sino-britannico con il quale la Gran Bretagna s’impegna a ritrasferire alla Cina la sovranità sull’isola a patto di garantire il mantenimento dell’assetto economico, politico e sociale del territorio. Hong Kong diventa per la RPC una Regione amministrativa speciale e il 1 luglio 1997 entra in vigore la legge fondamentale della regione, ribadendo gli impegni politici assunti tredici anni prima dalla RPC con la Gran Bretagna. Ed ecco che arriviamo a uno dei punti importanti di questa storia: l’articolo 5 della costituzione dell’isola afferma che “il sistema e le politiche socialiste non saranno praticate nella Regione amministrativa speciale di Hong Kong, e il sistema e il modo di vivere capitalista rimarranno invariati per cinquant’anni”. Mancano trentaquattro anni al 2046, e mi chiedo cosa succederà. Da dieci anni a questa parte il governo della RPC si è diviso tra repressione e ambigue aperture.

Per capire meglio la questione di Hong Kong bisogna soffermarsi sugli eventi del 2003. I primi mesi di quell’anno il mondo li trascorse a seguire l’emergenza epidemica dall’oriente, la Sars. Il coronavirus si diffuse velocemente fuori dalla Cina continentale anche a causa del totale blackout di informazioni sanitarie da parte del governo. La popolazione di Hong Kong ne uscì stremata. Per sconfiggere il virus, la Cina dovette smettere di bloccare le informazioni che provenivano dall’estero, fermare la censura e licenziare il ministro della Sanità. La doverosa conversione alla trasparenza minò il governo centrale di Pechino. Nel luglio dello stesso anno, nonostante i postumi della crisi epidemica (con gravi conseguenze economiche), mezzo milione di cittadini si riversò nelle strade per contestare le leggi antisovversione che il chief executive della regione Tung Chee Hwa voleva varare con l’approvazione di Pechino. Il governo, con il pretesto dell’ordine pubblico, mirava a ridurre la libertà di manifestazione, a indebolire la protezione dello statuto speciale di Hong Kong. La mobilitazione popolare fu un successo e il governo dovette fare marcia indietro. Ma Pechino, per sedare l’agitazione politica di Hong Kong, decise di inondare la città di benefici economici, attraverso un’ambigua apertura democratica: possibilità per le imprese continentali di quotarsi alla borsa di Hong Kong, liberalizzazione dell’ingresso dei turisti cinesi, miglioramento dei collegamenti con la terraferma. L’isola è passata dalla Sars a un boom economico creato appositamente dal governo centrale per distrarre gli hongkonghesi dalla situazione politica. Un boom che non è servito ai dirigenti pechinesi, poiché nel gennaio del 2004 un’altra imponente manifestazione ha avuto luogo nell’isola.

Tutto questo è successo pochi anni fa, e non negli anni Ottanta. Ho l’impressione che in Italia viviamo la presenza della Cina nella nostra società soltanto come se fosse un’invasione di tipo capitalistico. A Milano, come a Prato, ci guardiamo attorno e ignoriamo, o dimentichiamo, che la Cina continua a opprimere il Tibet, che a Hong Kong, una delle città più ricche del mondo, si combatte per i pieni diritti politici. La Cina è un paese moderno? Politicamente parlando, credo che la RPC si stia avvicinando sempre di più all’Occidente (una volta emigrando in massa, ora comprando porzioni di debiti pubblici statali) perché non sa più come affrontare il proprio paese-continente, la propria popolazione.

E noi, noi che della Cina abbiamo poche immagini importanti (Tienanmen, 1989), come facciamo a capire la RPC e la sua esistenza nel 2012? Tra trentaquattro anni potrebbe succedere qualcosa di importante oppure nulla. Adesso, nel 2012, a dispetto delle apparenze, della gente che lavora troppo per guadagnare tantissimo, della vita intesa come work hard, play hard, a Hong Kong si continua a vivere in un modo completamente diverso dalla Repubblica Popolare Cinese. Vorrei capire come, ma non sono lì. Per come ragiono io, posso solo partire dalle immagini.

Chiedo a Benjamin Sieberer, fotografo austriaco che da sei anni vive sull’isola, di mandarmi delle foto e di descrivermi la vita a Hong Kong alla fine del 2012. Gli chiedo subito di parlarmi della luce, della luminosità nelle strade, è la prima cosa che vorrei scoprire e analizzare, se fossi lì. Mi scrive: “Si potrebbe affermare che qui, di giorno, è molto buio: grattacieli e larghi palazzi coprono il sole producendo forti contrasti; d’inverno un monsone proveniente dal nord rilascia sulla città tutto lo sporco proveniente dalla Cina, coprendo il cielo come una cappa, e d’estate un monsone dal sud porta spesse nuvole e forti piogge. Se scatti in bianco e nero è perfetto, il tempo atmosferico ci mostra Hong Kong nel suo lato visivamente più drammatico”. Molte volte ho immaginato le ombre dei grattacieli, e quelle dei ponti che collegano i grattacieli, che formano un vero e proprio terzo livello percorribile della città, dopo il sottosuolo e la strada. Gli chiedo della notte, mi scrive: “Di notte l’illuminazione stradale è così forte e diffusa che puoi quasi fotografare a una velocità di scatto simile a quella del giorno”.

Benjamin mi fa capire che l’iconografia personale che possiedo di Hong Kong rappresenta una sorta di negativo di un’altra metropoli asiatica: Tokyo. Molte sono le caratteristiche in comune, e da ciò mi rendo conto che dovrei riconsiderare anche il bagaglio immaginario che possiedo sul Giappone. Le cose si complicano.

Entro il 2046 andrò a Hong Kong, per disfarmi completamente dell’idea che mi sono fatto in tutti questi anni di questa città-isola che si divide tra consumismo e lotta per i diritti civili. Sfoltirò la memoria, rinnoverò l’immaginazione. Forse capirò qualcosa, e qualcos’altro sarà sfocato. Intanto mi preparo.

C’è un proverbio cinese che in italiano fa più o meno così: se la corda è lunga l’aquilone volerà in alto.

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Redazione the trip
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