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testo estratto dal libro di Cesare Brandi  Pellegrino di Puglia (2010, Bompiani editore)

Il Campanile di Trani mi aveva messo di un tale umore che volli ritornare a Castel del Monte, per vedere se il deprecabile zelo che fa rialzare la punta del campanile del Duomo di Bari, smontare e rimontare quello di Trani, per caso si fosse spinto a sopraelevare anche la cima delle torri di Castel del Monte, che, si sa, erano più alte, anche se non si sa né di quanto fossero alte né come esattamente finissero. Ma un po’ di fantasia non manca qua dove, per il restauro, paurosamente si torna al peggiore Viollet-leDuc.

Dunque volevo vedere se, per caso, anche le torri di Castel del Monte fossero cresciute così alla chetichella.
Le torri, per il momento almeno, non sono cresciute.

L’edificio, trasandato e mal tenuto all’interno come all’esterno, ha tuttavia una sua prepotenza a cui è difficile resistere. E sì che, di tutta la Puglia, non è questo il monumento a cui vadano le mie preferenze, anche se il più insigne, dopo San Nicola. Ma davvero, come nella sua pianta d’una regolarità geometrica che fa pensare più ai cristalli di neve che all’opera dell’uomo, c’è un segreto incontro di civiltà diverse, in cui ognuna canta nella sua lingua, eppure la polifonia è perfetta.

Si volle francese, e non che la civiltà architettonica francese in qualche parte non vi sia, ma la strada era lunga, dalla Francia alla Puglia: molte cose cambiavano per via, e già ne erano cambiate coi Normanni, che erano assai più francesi di Federigo II. Alla corte di Federigo tutto si mischiava e anche a Castel del Monte tutto si mischia. A dire il vero neanche i castelli Omayadi arrivano pari pari a congiungersi a Castel del Monte. I castelli Omayadi erano ancora la fattoria romana del deserto, esaltata a palazzo dai nuovi ricchi, e con lo spreco dell’acqua proprio dove acqua non c’era.

Qui a Castel del Monte, non è che non ci fosse più acqua che nel deserto, ma i bravi architetti di discendenza araba che curarono gli impianti idrici fecero un capolavoro. Il tetto a due spioventi mandava da un lato l’acqua nella cisterna nel Cortile ottagono, dall’altro nelle quattro cisterne pensili delle torri, dalle quali l’acqua scendeva nei gabinetti. Questi gabinetti, alla metà del Duecento, hanno sempre suscitato l’ammirazione di tutti gli storici e i visitatori, e per molti secoli, non hanno avuto rivali. Sicuramente, ci dovettero già essere anche nel palazzo di Palermo, e ci sono, a quel che pare, a Castello Ursino e a Castel Maniace: è un peccato che né a Lago Pesole né a Castel fiorentino sia rimasto in piedi qualcosa di così coerente come a Castel del Monte.

In fondo l’edilizia di Federigo è stata disgraziata: né i vari castelli in Puglia, né quello, splendido, di Prato, all’interno restituiscono qualcosa di più che qualche grande vano e i cortili. In quanto a Capua, non si rimpiangerà mai abbastanza la perdita di quel capolavoro, che era la Porta-Castello. Basta vedere, ora, quel leggero festone rimasto all’imposto delle torri, per rendersi conto della leggiadria, quasi al confine con la leziosaggine, che l’arte incubata da Federigo II poteva sostenere.

Giurerei che Federigo II non dovette amare affatto l’architettura gotica: quel che c’è di gotico, a Castel del Monte, sono appena le volte e le costolature; ma non le finestre, che sono ancora quelle arabe che ingioiellano le costruzioni normanne della Sicilia. E poi, basterebbero le mura sode, il gusto delle ampie superfici, ancora bizantine o romaniche, se proprio non vogliamo dire arabe: e invece lo dobbiamo dire, perché se c’è qualcosa a cui fa pensare Castel del Monte, è alla porta fatimita del Cairo, è agli alti muri senza finestre, che avvolgono la Moschea di Ibn Touloun. E anche i merli, sarebbe da ridere se non fossero stati, “li mergoli” di cui appunto parla Matteo da Giovinazzo, né guelfi né ghibellini, ma come quelli fiammeggianti o seghettati delle fortificazioni arabe. Infine il correttivo dell’antichità classica: quel portale sormontato dal timpano, dove, naturalmente, le proporzioni classiche svaporano, ma acquistano un accento squisitamente romanzo, e, in quell’accento conservano l’etimo classico. Donde negli augustali d’oro, Federigo, con la clamide e redimito di alloro, se la fa da imperatore romano.

Se vi furono mosaici non vi dovettero essere pitture, a Castel del Monte. Non dovette amare la pittura per quanto amò la scultura, il grande Federigo. Le sale di Castel del Monte ebbero una zoccolatura alta di marmo, come gli Arabi usarono continuando i Bizantini: come alla Cappella Palatina o alla Zisa. E dovette essere un castello scomodissimo, con quelle stanze l’una dentro l’altra. È anche vero che c’era un ballatoio di legno all’interno del cortile, che liberava le stanze dal passaggio obbligato. Mi ha sempre sorpreso, l’abbondanza dei ballatoi lignei, nell’architettura medioevale: non n’è rimasto neanche uno, ma le mensole di pietra, le porte che danno sul vuoto, le pitture infine di Ambrogio e di Simone, parlano chiaro. Più che un avanzo romano, codesti ballatoi, erano arabi, al solito. Tanto più dove, come nel Regno di Sicilia, le fila della civiltà, del gusto, erano arabe.

Ma Castel del Monte è una visita melanconica. Forse, quando c’era tutta una foresta verde, questa massa dorata che si levava dal mezzo e sulla cima della moderata altura, doveva essere altra cosa. Ora è tutto fuorché un castello per le partite di piacere, per le meravigliose cacciate che Federigo II vi dovette fare o pensò di farvi: perché se lo godé per poco, e se il Castello era pronto nel 1246, Federigo morì nel 1250.

Codesta passione per la caccia era quello che veramente ora si direbbe il suo hobby. Scritto o ispirato da lui, il famoso trattato sull’uccellagione, rivela come, nella duplice calamitazione del necessario e del superfluo, spesso Federigo prendesse il superfluo per necessario. Sembra impossibile che l’uomo il quale non si saziava di porre domande, che sembrano persino ingenue tanto mirano alle cime del pensiero, poi provasse un tale divertimento a discettare sui falconi e sui falconieri. Ai dottori di Arabia, di Siria, d’Egitto aveva fatto quelle domande, e troppo erano restate senza risposta. Ma Federigo non si sdette. Chiese al califfo Almohade Raschid che le sottoponesse anche a Ibn Sabin e così sono arrivate sino a noi.

Che cosa chiede, fra l’altro, Federigo? «Qual è la natura dell’anima? Qual è l’indice della sua immortalità? E l’anima, è proprio immortale?»

O Federigo che cuore semplice ti era ancora rimasto! Forse per questo potevi divertirti anche a circondarti di belve addomesticate e di falconi. Sicché, mentre i Mongoli invadevano l’Ungheria, e dalla parte del Gran Khan ti si offriva un alto posto alla sua corte, se tu avessi accettato di metterti dalla sua parte, rispondesti che eri abbastanza pratico di uccellagione per poter aspirare a diventare primo falconiere di Sua Maestà, il Gran Khan! Ora, questa tua delizia per la caccia, come la avrebbe chiamata un principe padano del Quattrocento, non è più delizia, ma è tornata chiaramente prigione. E più che delle melopee arabe, che tu amavi fino a divertirti ad andare ad ascoltarle nelle moschee – lo scandalo era grande -, sembra ancora risuonare segretamente dei gemiti e dei lamenti che, divenuto durissimo carcere, strappò ai figli di Manfredi, ai figli di quel tuo figlio dell’amore, che lo spietato Carlo d’Angiò fece morire qua dentro. Né di loro come del fratellastro di Manfredi, di re Enzo è avanzato un canto quale l’accorato e delicatissimo congedo:

e vanne in Puglia piana
a grande Catapana
dove sta lo mio core notte e dia.

Ma la prigione di re Enzo, era altra cosa. Era una prigione bolognese, e a re Enzo fu data pure una ragazzotta per i suoi sfoghi, donde due figlie. Ben altra città, Bologna.

Con questi pensieri lascio Castel del Monte.

 

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la copertina del libro di Cesare Brandi “Pellegrino in Puglia”, 2010 Bompiani Editore

Cesare Brandi (1906-1988) è stato storico dell’arte, critico e saggista. Dice di lui Alberto Arbasino nei sui Ritratti italiani:

«Sfuggendo con destrezza ai vari generi letterari incombenti, il cattedratico illustre sembra divertirsi come un ragazzo insonne fra templi e sassi e muschi, anche fra le casupolaie della spaventosa Tokyo e della volgare Kyoto. Vibra come uno schedario animato di vivaci relais: sotto le sprezzature e velature della prosa guizzante intreccia trame fittissime di richiami e risvolti e risucchi polimorfi e trasversali tra scultura e pensiero, natura e tecnica, antichità e vita, stile e ammicco, Oriente e Occidente, entusiasmi e trappole, squisitezze e Kitsch»

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