“I Passeggeri della Terra” è un libro scritto da Nicola Zolin.
Ho conosciuto Nicola Zolin per la prima volta in India, mentre fotografava al Maha Kumbh Mela il più importante festival induista. Bizzarro conoscersi in India e poi scoprire di abitare a qualche chilometro di distanza a Treviso. Ho deciso di intervistarlo per indagare sulle profonde motivazioni che lo hanno spinto a compiere questo viaggio, tema centrale del suo libro “I Passeggeri della Terra” edito da Polaris.
Quali sono state le motivazioni che vi hanno convinto a partire?
Avevate minimamente pianificato il viaggio?
Pianificato, no. Abbiamo pensato piuttosto a come volevamo farlo o non farlo. Da alcuni anni io, Benjamin e Raphael Fellmer lavoravamo a progetti collettivi, rivolti soprattutto a giovani provenienti da paesi diversi. In un mondo che sembra aver smesso di pensare in grande, volevamo essere scintille che riaccendessero dei fuochi sopiti per trasmettere l’idea che ognuno di noi è l’artefice del proprio destino e che i limiti sono solo nella mente. Il nostro sogno era quello di fare un viaggio epico insieme, abbandonandoci al flusso della vita, all’avventura e all’esperienza, un viaggio del tutto privo di certezze che ci mettesse in relazione proprio all’idea di esistenza. Il nostro attivismo ecologista ci ha portato a viaggiare senza denaro, per sottrarci da ogni dinamica consumistica e per dipendere veramente dagli altri e dagli eventi della vita. Sapevamo che avremmo potuto nutrirci con ciò che la nostra società getta via come scarto, che è più di un terzo del cibo che viene prodotto oggi globalmente. L’idea ci è venuta parlando, discutendo, sognando ad occhi aperti in quei mesi in cui stavamo finendo l’università e pensavamo a cosa ci importava davvero fare dopo.
Che effetto fa sentirsi una fonte di ispirazione per i viaggiatori?
Quali interlocutori volevi raggiungere?
Credo che questo fosse uno degli obiettivi del viaggio fin dall’inizio. In ognuno di noi è viva la necessità e il desiderio di comunicare quello che si fa, ancor più se si abbracciano certe visioni. Di certo volevamo trasmettere determinati messaggi, prima a noi stessi e poi agli altri, quali, credere in sé stessi, rendersi conto che l’intenzione, la curiosità e l’autostima sono molto più importanti dei soldi quando si sceglie di esplorare luoghi sconosciuti. Volevamo sviluppare una riflessione sul tema di libertà, sui confini molto labili tra l’idea di possibile e impossibile. Volevamo crescere, imparare, sviluppare noi stessi e incoraggiare al contempo la nostra generazione a porsi le giuste domande e a cercare la propria strada, anziché prendere il percorso più comodo, che spesso è il primo verso il quale ci si incammina, con il rischio di non lasciarlo più.
Cosa consigli a chi si incammina da solo per la prima volta con qualche paura nello zaino?
Le persone di ogni età hanno paura di perdere qualcosa. Si pensa troppo spesso a cosa si lascia e non a cosa si può trovare. A chi si incammina da solo per la prima volta consiglierei di riempire lo zaino il meno possibile di aspettative, con la consapevolezza che ad ogni passo il cammino diventerà più leggero. Ogni situazione è utile a comprendere qualche dinamica della vita o della propria personalità. L’accettazione di ogni situazione è il primo passo verso la propria crescita personale. I salti nel vuoto sono utili per acquistare fiducia in sé stessi e nel proprio destino, anche passando attraverso momenti di sofferenza e dolore. Ad un certo punto per caso ti guarderai allo specchio di qualche città sperduta e ti dirai “grazie”. A me è successo diverse volte.
A proposito di “grazie”, nel libro racconti come spesso vi è capitato di dipendere dalla solidarietà altrui?
Spesso, certamente, eravamo dipendenti dalla solidarietà altrui e abbiamo avuto modo di incontrare sia il bene che il male della gente. Ci siamo resi conto che il male era sempre figlio della paura. Paura che conoscevamo già più o meno, perché la società è intrisa di paure verso “l’altro”, il bene ci ha davvero sorpreso. La solidarietà, l’umanità, la fratellanza che abbiamo incontrato e che ci hanno mostrato persone fino a qualche attimo prima sconosciute è stata invece una sorpresa incredibile. Pur senza soldi, ci è capitato in rare occasioni di soffrire davvero la fame. Abbiamo detto migliaia di “grazie” ed essere grati di qualcosa è una sensazione davvero splendida. A volte siamo reticenti a ricevere qualcosa dagli altri. Credo che imparare a dare sia una delle cose più importanti per un essere umano, ma imparare a ricevere è altrettanto importante.
La tua scrittura si adatta al ritmo della strada, del deserto, dell’Oceano, restituendo una libertà che plasma la percezione delle distanze e del tempo percorso.
Come vivi questa compressione e dilatazione del tempo nei viaggi?
A volte penso che il tempo non esista, che la realtà si dilati a seconda dell’esperienza e che siano gli eventi e le emozioni a scandire davvero il tempo. Quei giorni in viaggio sembravano a volte interminabili. Non avevamo il tempo di digerire gli accadimenti che subito ci trovavamo in qualche altra situazione. E’ sempre importante ascoltare l’esperienza di chi intende “sacrificare” la placida quotidianità in funzione dell’accrescimento del sé.
Ad anni di distanza come elabori il rapporto tra l’esperienza fatta e la consapevolezza di averlo fatto “davvero”? Cosa ritrovi di te, cosa è cambiato?
Non tutti siamo a nostro agio nella placida quotidianità. Alcuni di noi in questo tipo di situazioni si sentono inadeguati e irrequieti, io compreso. La spinta verso l’esperienza è una spinta verso l’arricchimento di noi stessi, dato che siamo composti, in qualche modo, delle esperienze che abbiamo fatto e delle persone che abbiamo incontrato. L’esperienza del viaggio senza soldi nello specifico ha ribaltato del tutto la mia vita, mi ha fatto prendere coscienza di cose che non avrei neppure lontanamente immaginato. Ho imparato davvero a viaggiare, a entrare in contatto con l’umano, a diventare nulla e a fondermi con gli ambienti che mi circondano. Questo viaggio mi ha offerto uno sguardo verso il mondo del tutto nuovo, che ancora mi tengo stretto, integrandolo a tutte le esperienze successive che in qualche modo sono connesse a questo viaggio che ritengo sia stato davvero iniziatico.
Qual è ora il tuo modo di viaggiare, lavorando da giornalista e fotoreporter?
Spesso i viaggi sono più brevi, più focalizzati. Le ricerche sono più strutturate, ad animarmi sono temi politici e sociali. Nel raccontare storie di persone metto me stesso da parte e cerco di diventare messaggero. Così facendo perdo qualcosa a livello personale, ma ne guadagno a livello morale e intellettuale. Vivo i viaggi per l’importanza di ciò che sto raccontando, mi appassiono di temi che stimolano la mia curiosità e che ritengo debbano essere raccontati. La mia vita oggi è un continuo susseguirsi di partenze e ritorni. Spesso ho raccontato tematiche molto vicine a quelle del viaggio, come quelle dei giovani iraniani che nel viaggio hanno trovato un respiro di libertà alle oppressioni della società, come le storie dei migranti lungo la rotta balcanica e in Italia, in cammino verso un’idea di futuro migliore.
Oggi i viaggiatori sono “nomadi digitali”, hanno: siti, blog, pagine facebook e instagram dove si rincorrono foto, like e followers. Com’è il tuo rapporto con i social? Dove ti collochi tra questi spazi di mobilità virtuale ed esperienziale?
I social hanno un potenziale enorme di avvicinare persone con interessi comuni. Nei miei viaggi nell’Europa orientale, in Turchia, in Iran, ho usato molto spesso il CouchSurfing, che mi ha permesso di incontrare persone splendide le quali mi sono tuttora molto vicine, a distanza di anni. I social possono essere altrettanto utili anche per trasmettere le proprie storie. Se lavoro a storie giornalistiche uso i social proprio per portare chi mi segue dentro le storie, proprio mentre vengono prodotte. Li uso molto meno quando viaggio lontano e desidero disconnettermi dai soliti pensieri, dalle news e da tutto ciò che non parte del mio presente in un determinato momento. In certi momenti mi sembra di sentirmi molto più leggero e molto più concentrato. Internet in viaggio ci può aiutare talvolta a sentirci meno soli, ma può anche essere un’illusione e limitare il nostro spirito di adattamento alle culture e ai modi di vita dei paesi in cui ci troviamo.
Come credi sarebbe cambiato l’eco del vostro viaggio con l’uso di questi strumenti?
A volte penso che aver avuto strumenti come Instagram in un viaggio come quello senza soldi, avrebbe dato molta potenza comunicativa a quello che stavamo facendo e probabilmente avremmo raggiunto molte più persone. Avevamo però deciso di fare a meno dei telefoni e credo sia stato molto meglio così. Ogni giorno avevo l’impressione di affilare il mio intuito, di entrare in connessione più profonda con le cose e con gli ambienti, fino a rendermi conto che i miei pensieri e le mie intenzioni mi permettevano di creare la realtà e di attirare a me ciò che cercavo. Probabilmente la tecnologia avrebbe fatto da ostacolo a questo processo.
Come gestivi il rapporto con chi era casa?
Per comunicare con le persone importanti scrivevo pagine di diario, le fotografavo e poi le spedivo per mail, appena la batteria del nostro computer portatile si ricaricava con i pannelli fotovoltaici. A volte inviavo diverse pagine di riflessioni che facevo mentre ero in viaggio. Mi riesce più facile scrivere se penso a un destinatario.
Avvicinandoci al tuo presente, dopo aver visitato circa cinquanta paesi, c’è un luogo a cui ti senti di appartenere?
Per tanti anni credo che la mia casa siano state le persone e le situazioni che cercavo. Negli ultimi anni mi sono fermato in diversi posti e mi sento un pò a casa in Veneto dove sono nato, a Roma dove vivo di tanto in tanto, ad Atene dove ho vissuto e lavorato di recente, in Olanda dove ho studiato e conosciuto gli amici più importanti. Non mi chiedere dove voglio vivere, perché talvolta me lo chiedo anch’io, ma poi torno a pensare a quale sarà la prossima destinazione.
Un paese dove saresti rimasto?
Dalla Grecia è stato difficile andarsene ma ci ritorno molto spesso. L’Iran e il Nepal sono paesi che mi sono entrati profondamente nel cuore. In India vorrei viaggiare ancora molto con calma, più avanti probabilmente. Probabilmente, invecchiando, farò sempre più fatica a lasciare i luoghi di cui mi innamoro. Le prerogative di ogni viaggio cambiano continuamente ponendosi come espressione di svariati bisogni: l’assenza di qualcosa o la tensione verso qualcosa spingono ad inoltrarsi in territori che altrimenti non verrebbero percorsi. Spesso la solitudine è la miglior compagna di viaggio che si possa avere per esporre la propria soggettività al contatto con realtà sconosciute, soprattutto quelle dentro di noi.
Esistono esperienze talmente immediate da non essere condivisibili, cosa ami tenere per te?
Sì spesso il viaggio nasce da un bisogno. A volte ho sentito fortemente la necessità di partire per certe destinazioni. Per un fotografo il viaggio è anche l’opportunità di creare nuovi lavori, di mettersi alla prova con nuove visioni, di ricercare l’estetica e il racconto in condizioni diverse. La solitudine è anche una grandissima libertà, che ci permette di scegliere in ogni momento il proprio percorso e la compagnia. Oppure anche di mettere a tacere tutto il mondo esteriore per dare ascolto a quello interiore. Credo che quest’ultimo non sia molto facile da condividere nell’immediato. Alcuni sentimenti incastrati nel nostro profondo sono di difficile comprensione per noi stessi, figurarsi per gli altri…
Possiamo concludere chiedendoci se la ricerca di conoscenza e la fame per i viaggi sia tensione verso il desiderio di libertà che ci portiamo dentro?
Sicuramente. Il desiderio stesso di libertà viene dall’idea che esistano altri mondi possibili, altre realtà, altri mondi dove la nostra personalità può sentirsi più o meno a proprio agio. Per questo, sicuramente, il viaggio verso la conoscenza è un viaggio verso la libertà, anche quella intellettuale. É anche un viaggio verso la consapevolezza di noi stessi nel mondo, una fuga dalla superficialità e dall’ignoranza verso l’incontro di una pace con sé stessi e con gli altri più profonda.
di Eleonora Vianello
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