testo e foto di Francesca Magistro
É colpa di Pietro se sono qui. “E poi che ci vai a fare in Galles?”. “Londra non m’innamora, non so perché”.
Al The Old Truman Brewery si portano i jeans arrotolati su, le paillettes ricordano fiacche il glam-rock, il tinto è pessimo e sono esposte tante foto mediocri.
Odio gli happenings. Con tutta me stessa.
Quello di Pietro è un “project of the local fishing industry as it declines”, recita il cartellino. Phil tira la rete, Phil studia la mappa isobarica, Phil sgancia l’amo dal bianco e dal nero. Il titolo è “Tide zero”, ovvero il momento in cui la marea si ritira, noto anche come “slack water”, marea stanca. La condensa, la polvere sulla lente, le rughe tra le mani nelle tonalità di grigio che rimbalzano nella grana. Lo sento il sale addosso di quei mesi trascorsi sulla barca e sugli scogli in attesa di ritardi e anticipi della marea che arriva e bagna. Ogni giorno, senza orario preciso… la marea arriva e bagna.
Per un attimo non sono più a Brick Lane ma lì, a prendermi gli spruzzi e a riposare gli occhi. Ginocchia e cuore.
Cosa cercavo, cosa cerco… Fermo un’offerta “last minute” e in tre ore di verde pastello al finestrino raggiungo Swansea.
A Swansea piove, ma poco importa. Secondo la regola che i luoghi nuovi te li devi conquistare poco alla volta, vado a piedi.
Cittadina costiera ad est della penisola di Gonwer, Swansea è anche contea del Galles. Il suo nome significa “foce del fiume Tawe” e ha avuto origine all’epoca delle razzie vichinghe. Esco dalla stazione e ci sono solo io. Swansea conta 169.880 abitanti di cui nessuno disponibile a dare informazioni. M’incammino e il riflesso su una vetrina mi ricorda che nello zaino porto una tenda che non userò mai. Mi serve raggiungere il centro, un punto informativo e una stanza. Giro l’angolo ed è vita. Il riflesso delle squame al mercato del pesce, le gengive della merciaia, la glassa sulle torte. Assaggio, sento, respiro. Secondo Wikipedia il 13,4% della popolazione parla gallese, secondo me molto di più. I ragazzi sono tallonatori negli All Whites, le ragazze fanno le commesse al Nails Salon. Starbucks è l’unico posto con il wireless. Prenoto una stanza a poco e nel nero del mio caffè mi stupisco del riflesso di un sorriso.
Sul bus mi perdo ma i pensionati aggrappati a borse e borsette mi adottano presto. Alla fermata l’autista si intrattiene, i volti sono di ceramica, i sorrisi il Golfo di Napoli e fuori piove e piove.
La mia stanza è in cima, vista Snowdonia, e batte 3:0 il vintage londinese in ogni dettaglio. Per non parlare dei sanitari e delle vettovaglie della sala da pranzo. Il proprietario è così alto che entra a stento nel gabbiotto e vederlo incastrato com’è, tra sedia e incisivi, mi fa quasi dispiacere.
Fuori non c’è tregua e investo 10 quids negli stivali di gomma. Passeggio per il Maritime Quarter, arrivando fino a un magazzino che scopro essere il National Waterfront Museum, sorto intorno a vecchi bacini portuali trasformati in aree residenziali. Sulla costa la pioggia non si distingue dall’acqua e non è un caso se Dylan Thomas si accanì sulla poesia. Alla permanente “Man and Myth” al Dylan Thomas Centre imparo che da lui prendono nome i miei Dylan preferiti, Bob e Dog. Ho fame, entro in un locale illuminato a neon pallido dove mi servono il miglior fish&chips siculo di tutti gli UK. Antonio mi racconta come ci è finito, qui e vent’anni fa, ancora picciriddu, mentre fuori si fa buio.
Torno nella mia stanza, l’asciugamano grande, l’acqua azzurra quanto la vasca. Finalmente ti ho trovata, giusta distanza. Lavo via la salsedine di un viaggio non mio e sono pronta.
Il Great Outdoors incanta e la gente è la sua gente. E questo sì, che innamora.