La prima volta che lo vidi sbucò all’improvviso da una nuvola di nebbia.
Lui, infangato e malconcio, e dopo di lui centocinquanta pecore. Le mie signore, disse, prima di chiedermi un goccio dell’acqua che trasportavo sulla testa.
Era piovuto forte tutta la notte e anche la mattina. Uno di quei temporaloni d’inizio autunno che spezzano i rami secchi lasciando foglie dappertutto.
Io tornavo dalla fonte, come ogni giorno a quell’ora. Abitavo con mamma, papà e i miei cinque fratelli in una piccola casa vicino al tratturo Pescasseroli-Candela. Sapevo del passaggio dei pastori in transumanza, ma mai mi era capitato di incontrarne uno.
«Dal piazzale di Santa Maria di Collemaggio fino alla piazza dell’Epitaffio di Foggia sono quindici giorni di cammino», disse dopo aver bevuto. «Qui siamo un po’ più che a metà strada».
Le sue signore ci guardavano immobili e solo qualche folata di vento, muovendo i piccoli campanelli, mi ricordava della loro presenza.
Parlammo a lungo, almeno credo. Lui raccontava e io chiedevo, perdendomi nelle sue parole. Immaginavo i luoghi che aveva appena attraversato, le stelle contate nel cielo per orientare il cammino, il calore del fuoco notturno e il richiamo dei pastori, ciascuno il suo, per recuperare le greggi. La mia vita, in confronto, era d’una noia mortale. Quasi mi vergognai quando mi chiese «E tu che fai?» Esitai un momento, stringendo nel pugno lo scialle di lana di mia nonna al quale attribuivo magici poteri di coraggio e preveggenza.
«Vado a scuola e nel pomeriggio aiuto la mamma in campagna e mi prendo cura dei miei fratellini. Abbiamo qualche pecora anche noi, sai? Cinque galline e una mucca. C’è sempre molto da fare».
Non mi parve deluso, almeno a giudicare dalle tante domande. Prima del tramonto si rimise in viaggio, verso Sud, promettendomi di tornare dopo l’ultima neve.
Cominciò così la nostra strana amicizia, il nostro rapporto stagionale. Passava a salutarmi ogni inizio d’autunno e sapevo che lo avrei rivisto a primavera inoltrata. Tutto il resto del tempo era ricordo e attesa. Non credo di esserne stata innamorata, anche se c’ho pensato qualche volta e in casa mi prendevano in giro notando il mio fermento quando si avvicinavano i giorni del tratturo. Lo aspettavo, certo. Ed ero felice di vederlo sbucare dai cespugli, tra lo scampanellare delle sue morbide amiche, ogni volta con un regalo diverso. Cesti di rose canine, mazzolini di crocus e ciclamini selvatici, more, mandorle o qualche pezzo di pane pugliese cotto a legna d’ulivo, una rarità dalle nostre parti. E ogni volta c’erano nuovi racconti entusiasmanti, benché il tragitto fosse sempre lo stesso. Anche io mi impegnavo per intrattenerlo, selezionando con cura gli eventi più interessanti sul piccolo taccuino rilegato in pelle di mucca, il suo regalo più prezioso.
Passavano i mesi, gli anni. Raramente parlavamo di noi, di quanto fossimo felici di ritrovarci ogni volta. Non perché lo dessimo per scontato, sapevamo quanto quelle poche ore trascorse insieme fossero preziose per entrambi. Credo fosse più che altro una questione di pudore e timidezza.
Poi tornò l’inverno, più lungo e rigido del solito quell’anno. Rimanemmo isolati per settimane senza poter raggiungere il paese più vicino, che era a un giorno di cammino da casa. Il cibo non mancava, per fortuna, ma quegli interminabili pomeriggi passati davanti al fuoco erano per me, allora adolescente, una vera tortura.
Scrivevo sul mio diario con ossessiva regolarità, appuntando meticolosamente piccoli eventi di poco conto, in attesa di potergliene parlare a voce.
Era una mattina di fine aprile quando lo vidi arrivare insieme a Nina, il suo inseparabile pastore maremmano, che ormai conosceva bene la strada di casa. Stavo preparando il pane e insistetti perché si fermasse a pranzo. Parlammo a lungo, come sempre, sotto un tiepido sole primaverile. Mi raccontò dell’eccezionale nevicata che lo sorprese la notte di Natale e della costruzione della nuova ferrovia che un giorno, dicono, avrebbe collegato Bari a Milano. Ripartì poco dopo per svalicare il Matese prima di sera, abbracciandomi più forte e più a lungo del solito.
Fu l’ultima volta che lo vidi.
Lo aspettai invano l’autunno seguente, e la successiva primavera e tutti i mesi e i giorni a venire. Solo molto tempo dopo seppi che si era sposato con una giovane aquilana, figlia d’un importante produttore di filati.
Ormai mi sono abituata alla sua assenza e non spero più di rivederlo.
Invecchio e scrivo, accoccolata accanto a un camino sempre acceso.
Ma ogni tanto, quando passeggio con i miei cani lungo il tratturo, chiudo gli occhi e sorrido.
E lo rivedo, tutto sporco e malconcio, sbucare da una nuvola di nebbia.