Alameda del Siboney, El Hueco, Miramar. Nomi spagnoleggianti, in sintonia con qualsiasi città dell’America Latina, che a molti non suggeriscono nulla. Nomi quasi anonimi, nascosti all’ombra di altri più risonanti e riconoscibili. Lo scenario a cui rimandano uno dei più noti, la Havana. La scena, invece, totalmente fuori dalle corde.

Un viaggio nella capitale, così come a Cuba nella sua interezza, si può affrontare in due modi: chi ha pochi giorni a disposizione e non bada a spese, solitamente opta per un approccio più̀ turistico. Un giro su una classica Oldsmobile color pastello rimessa a nuovo, un mojito alla Bodeguita del Medio, una passeggiata lungo il Malecon, un breve tour tra le bellezze di epoca coloniale accompagnati da una guida in pantaloni bianchi e panama in testa a spezzare la tonalità̀ della sua pelle.
Poi c’è la Havana dei cubani, quella della gente che la mattina si sveglia per andare al lavoro, accompagna i figli a scuola, fa un salto alla bottega, incontra gli amici e si gode un po’ di relax. Una routine all’apparenza semplice.
Spesso si associa la parola “viaggiare” esclusivamente allo spostamento fisico nello spazio. A Cuba interviene un’altra dimensione: quella temporale. Più che altrove, si viaggia indietro nel tempo. Fuori dall’Havana Vieja non esistono itinerari turistici predefiniti. Bisogna lasciarsi trasportare, a “sentimento”. Meglio saltare su un autobus pubblico senza sapere la destinazione, senza necessariamente scendere in una delle fermate, e osservare la città scorrere fuori dal finestrino. Lo scenario è poco confortante, si ha la sensazione di essere finiti nel luogo sbagliato. Questo, però, è il momento di scardinare solidi costrutti mentali, rompere i pregiudizi che ci portiamo dietro da casa.

La vera Havana parte dagli enormi condomini. Architetture che non rimandano ad uno stile preciso, a chi ha provato a colonizzare questa terra. Sono frutto di un progetto, un’idea di futuro per questo paese che poi non si è concretizzata. Osservare le geometrie di questo intricato groviglio di giganti in cemento rimanda a un’epoca di prosperità che all’improvviso si è fermata. E da allora nulla è cambiato. I palazzi sono ancora lì, possenti e orgogliosi. Il grigio prevale, suggerisce macchie di umidità, di luogo vissuto. Al calar del sole appaiono spettrali. Quadratini luminosi in alto, troppo in alto, suggeriscono che all’interno c’è vita, che qualcosa si muove anche se sembrano irraggiungibili.

La gente fa la vera differenza: alcuni ci abitano da decenni, altri sono arrivati di recente. Addentrarsi in uno di questi palazzoni è un’esperienza a se stante. Il concetto di “appartamento” non esiste. Nessuno si apparta, si vive uno accanto agli altri. Corridoi, scale, piani rialzati, angoli nascosti e una costante: le porte perennemente aperte. Si può gettare un occhio all’interno. Ognuno ha la sua stanza, spesso senza finestre. Cataste di vestiti sommergono piccoli elettrodomestici poggiati qua e là tra il letto, qualche mobile e il pavimento. Un fornelletto, solo per il caffè e il riso, non manca mai. I pasti completi si consumano sempre fuori casa.
Incontrare uno straniero in questi quartieri è cosa rara, ritrovarselo in casa ancora di più. Nessuno si sente invaso. Un sorriso, a metà strada tra stupore e curiosità, non viene mai negato. Non ci sono muri da abbattere. Un “hola” pronunciato con fermezza è sufficiente per dar vita a conversazioni che potrebbero dilungarsi per ore.
Giù in strada la situazione non è molto differente. Marciapiedi sbeccati, piccoli arbusti che crescono tra le fessure dell’asfalto, muretti mai totalmente eretti, lampioni storti, aiuole prive di piante e quella perenne sensazione di abbandono, senza malinconia. Le scuole materne, con le giostre da giardino scricchiolanti. I negozi improvvisati, gli snack bar ricavati all’interno delle proprie abitazioni, saloni da barba all’aperto completano il quadretto.
Nell’immediata periferia non è raro scorgere qualche fabbrica abbandonata, ancora orgogliosamente eretta nonostante non sia stata in grado di mantenere la sua promessa di benessere. Le ciminiere e i silos spesso risucchiano ai loro piedi vecchie ferrovie in disuso, dove il verde dell’erbetta appanna il luccichio delle rotaie. Di tanto in tanto qualche stadio, che il verde dell’erba probabilmente non l’ha mai visto, ospedali, caserme, sgangherati giardini pubblici, qualche statua.

Poi c’è la gente che vive la sua vita, anche se per lo straniero è difficile crederci. La sensazione è quella di osservare degli attori sul palco di un teatro. Eppure non sono personaggi, sono persone. Persone che fanno della strada il loro salotto dove ancora si salutano, conversano, giocano a carte, leggono il giornale. Le “cose” si dicono ancora a voce, non con un vocale. Come si faceva una volta.
La dimensione temporale prevale sempre, sta al visitatore coglierla, capirla, goderne fino in fondo. E crescere.
di Silvano Taormina
foto copertina di Alexander Kunze