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Soffro da sempre la “sedentarietà”. L’idea di trovare una mia stabilità in un posto ha sempre rappresentato un problema, forse a causa della mia infanzia da figlio di un padre che ha quasi sempre lavorato all’estero, portandosi dietro la sua famiglia. Diciamo quindi che non mi sono mai abituato all’idea che Roma fosse la mia casa. Non lo sento oggi dopo venticinque  anni.

Di conseguenza quando ho potuto ho colto sempre al volo le possibilità che avevo di continuare a girare. Tra le tante, oltre confine e non, sono finito a Trieste sei anni fa per andare a trovare due amici di vecchia data. Da quel momento sono stato fulminato da quella città per molti versi opposta a quella che vivo. Un po’ come tracciare su un foglio una linea verticale e scrivere sinonimi e contrari. Ecco, da una parte c’è Roma con tutti i suoi contro, dall’altra Trieste. Disordine e ordine, caos e calma, palazzi e natura, folla e silenzi. Una gestione radicalmente opposta degli spazi e del tempo. Per chi non ne conosce la realtà Trieste può sembrare oltre confine. Un “oltre” rigido e categorico in ogni sua forma.

Poi i contrasti non mancano. Ci sono nelle etnie e ci sono nei quartieri. Ma Trieste nasconde anche delle perle non proprio pregiate. La prima è la ferriera, la gemella dell’Ilva di Taranto che crea grandissimi disagi alla città. Ma c’è, fornisce lavoro e la storia è sempre la stessa.

La seconda perla, assolutamente meno problematica se non per l’aspetto è il Quadrilatero di Melara che insieme al grande ospedale di Cattinara, sovrastano e sorvegliano l’intera città. Ho battuto questa città in lungo ed in largo, sempre con un pensiero fisso rivolto a questo enorme complesso, che volente o nolente appena alzavo lo sguardo era lì che mi chiamava. Con pazienza ho iniziato a girarci intorno, cercando di raccogliere qualche nozione che mi aiutasse a trovare le giuste motivazioni per avvicinarmi. Dovevo vincere quella timidezza mista a timore che mi frenava.

Il mio approccio a questa realtà, proprio in funzione delle voci e delle tradizioni che altrove hanno rappresentato sempre la centralizzazione di tutti i più gravi problemi sociali è stato lento. Sono partito osservandolo spesso da fuori, passando e ripassando attorno le strade che lo circondano. Poi un giorno ho deciso di attraversarlo da parte a parte. Dapprima con la mia attrezzatura stretta nello zaino. Infine accorgendomi dell’indifferenza con la quale ero trattato ho deciso di impugnare la mia reflex ed addentrarmi anche nelle parti più “nascoste e private”. Ogni cosa all’interno del comprensorio, ma all’esterno delle costruzioni sembra fatta in modo da farti sentire un nano. Le scale, le finestre, le rampe sono imponenti. Poi entrando invece ti rendi conto che tutto diventa molto piccolo in rapporto alla dimensione esterna.

La sorpresa più grande è stato attraversare quei corridoi alla base e scoprire che dietro tutto quel grigiume esterno si nascondeva un’anima coloratissima. Pareti e tante piccole porte colorate sembrano lì per infondere agli ospiti un senso di serenità. Ho iniziato a percorrerli, inizialmente senza scattare. Nella mia testa mi aspettavo d’esser cacciato in malo modo. Ma non è accaduto. La gente quasi non mi guardava o lo faceva distrattamente. Questo in realtà è un po’ tipico di tutta la città, ma qui dove sentivo di invadere prepotentemente la loro quotidianità, non mi aspettavo d’esser quasi invisibile. Invisibile un po’ come gli occupanti di questo luogo e la sua presenza all’interno di una città che quasi lo ignora. È stato solo dopo aver percorso per un po’ i corridoi che ho deciso di sfoderare nuovamente la macchina fotografica e iniziare a rubare qua e là qualche altro scatto. Non ho parlato con nessuno, non sarei stato in grado e nessuno ha mostrato interesse o curiosità per ciò che stavo facendo. Le foto sono un racconto silenzioso. E così dovrebbe esser sempre nella mia visione.

Ecco quindi l’ennesimo reportage “disabitato”. Descrivo luoghi senza invaderli. Racconto la mia visione senza farmi influenzare dalle parole della gente, anche se poi alla fine in una maniera o nell’altra è impossibile. Ma io sono un fotografo e vorrei poterlo essere sempre in maniera neutrale. Riprendere ciò che vedono i miei occhi e lasciare agli altri l’impegnativo peso di dargli il proprio senso. Sono un esteta, non uno scrittore, non un poeta.

Il Quadrilatero di Melara, tutte le foto:

 

Il complesso residenziale popolare ATER, comunemente chiamato “quadrilatero di Melara”, progettato da un nutrito gruppo di professionisti triestini, coordinati da Carlo Celli  fu costruito tra il 1969 e il 1982. La struttura è formata da due corpi fabbrica a forma di L del volume di 267mila metri cubi a formare appunto un enorme quadrilatero che si estende su una superficie di 89mila metri quadri. Ospita 468 appartamenti per circa 2.500 residenti. L’idea era quella di creare una sorta di quartiere modello che fosse autosufficiente fornito di tutti i bisogni primari con negozi, scuole e servizi vari.  Le chiavi dei primi appartamenti furono consegnate tra il 1979 e il 1981 soprattutto a coppie giovani. Oggi è abitato in parte anche da famiglie straniere. Per struttura e storia può essere certamente classificabile come “mostro edilizio” vicino all’idea che avevano in origine luoghi quali “le vele” di Scampia, il Nuovo Corviale a Roma, i quartieri Zen di Palermo o “le lavatrici” di Genova.

 

 

 

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