di Elena Zappi
Quando metti piede a Malta e alzi la testa per scrutare l’orizzonte vieni inebriato da una luce gialla. No, non è il sole che ti abbaglia, sono le isole stesse che risplendono di luce propria, perché la pietra con cui viene costruita ogni cosa qui ha questo potere.
La pietra maltese, o pietra calcarea, è il “marmo” locale utilizzato per dare vita a case, musei, strade, torrette di avvistamento, ricoprendo ogni superficie abitata dell’arcipelago. Resistente e versatile, questa materia prima ha infatti le caratteristiche necessarie per poter essere impiegata nelle costruzioni: mantiene le case fresche in estate e trattiene il tepore al loro interno nei mesi invernali, colorando di oro l’ambiente circostante. La pietra maltese è luce.
Questo accade da millenni, e infatti non mi sono stupita quando ho visitato per la prima volta il sito archeologico di Ġgantija a Gozo. Pensate, proprio su quest’isola vennero costruite tra il 3600 e il 3200 a.C. le strutture autoportanti più antiche al mondo, persino precedenti ai famosi megaliti di Stonehenge, usate come templi.
Si racconta che gli abitanti di Malta in passato credevano che fossero stati costruiti da alcuni giganti (da qui il nome del sito) per via degli enormi blocchi di pietra con i quali vennero assemblati, che in certi casi superano i cinque metri di lunghezza e pesano oltre cinquanta tonnellate. Pur non esistendo fonti scritte sulla loro origine, diversi studi protendono a ritenerle strutture religiose, perché posizionate in un punto strategico dell’isola dove al solstizio il sole colpisce e illumina l’interno.
Mentre passeggio osservo i resti di quelli che sembrano altari sacrificali, attraverso stanze per la venerazione di culti antichi e sul pavimento scorgo dei fori, forse usati per far defluire il sangue degli animali offerti, mentre sulle pareti si vedono ancora le tracce di una tintura rossa ormai sbiadita.
Quello che più mi colpisce è la loro posizione così isolata e in cima a una collina dalla quale si domina gran parte di Gozo e da dove in lontananza, quando le giornate sono limpide, s’intravedono le vicine coste della Sicilia.
Appoggio le mani sui lastroni scaldati dal sole, sono pietre millenarie che per certi versi mantengono immutata la loro composizione: solo il colore e la forma cambiano, modificati lentamente dagli agenti atmosferici. Gli angoli sono sempre più levigati e su un solo masso si posso individuare oltre dieci sfumature di giallo.
Estratta oggi in un’unica cava sull’isola di Gozo attiva dal 1972, una variante della stessa pietra è diventata anche l’elemento simbolo del Valletta City Gate, l’opera di Renzo Piano da molti considerata un punto di congiunzione tra l’architettura del passato e le sperimentazioni urbane più contemporanee.
Accompagnata da una guida d’eccezione, David Felice, architetto dello studio AP Architecture Project, che collaborò con Piano nella realizzazione del lavoro, passeggio in una della aree più importanti della capitale.
Il progetto comprende la costruzione del nuovo Parlamento, il recupero delle rovine del Royal Opera House e l’accesso alla città di Valletta. L’area aveva, però, diverse problematiche: al di là delle mura e dei resti abbandonati dell’Opera, questa zona cittadina aveva infatti perso la sua identità e l’intento era di restituirgliene una senza intaccare il passato. La sfida più grande fu, dunque, non snaturalizzare l’ambiente ma riuscire a mantenere un legame con la sua storia, amalgamando tra loro gli elementi estranei al luogo.
Mi racconta David che gli abitanti inizialmente non ebbero una reazione positiva al progetto.
Mettetevi nei loro panni: si tratta di persone che, nutrendo un profondo rispetto per la loro città e il suo retaggio storico, percepivano l’intervento del prestigioso archistar quasi come un’imposizione dall’alto.
Io non sono maltese, ma passeggiando in questa nuova area urbana ho letteralmente perso la testa: a mio avviso Renzo Piano ha davvero trovato la chiave giusta per realizzare un progetto in grado di accontentare tutti.
La scelta di utilizzare la pietra locale si è rivelata particolarmente appropriata, perché ha permesso di stabilire un dialogo tra gli edifici antichi, le nuove costruzioni e l’ingresso fisico e simbolico della città, diventando il comune denominatore di tutto il lavoro.
Il calcare giallo di Malta nella sua variante più compatta non è stato, tuttavia, usato in maniera banale o semplicistica. Nell’Opera House si è cercato di riproporre tecniche vicine alla tradizione per colmare i vuoti lasciati dalla mancanza delle pietre originali; nel Gate sono state impiegate lastre di grandi dimensioni per rivestire le mura d’ingresso e, infine, nel Parlamento la pietra ha subito una lavorazione più pregiata.
Mentre cammino sotto i suoi portici e ne osservo geometrie e tensioni, David mi spiega che in questo edificio il “marmo maltese” ha anche l’importante ruolo di filtrare la luce che penetra all’interno regolandone la temperatura. La definisce una parete attiva in quanto le alette frangisole sono state posizionate in base all’inclinazione dei raggi solari ma rimangono perfettamente integrate al resto della facciata.
A parer mio il risultato è senza dubbio meraviglioso: Renzo Piano è riuscito a centrare a pieno la sua idea modellando il possente edificio del Parlamento come se fosse un masso eroso dal vento. Proprio come è accaduto nel corso di millenni ai templi di Ġgantija.