di Assia Federica Orneli
Non credo che riuscirò ad esprime l’emozione che si prova a scalare una montagna e, non parliamo di una montagna qualsiasi…!
Oltre ad appartenere ad una delle Seven Summit del pianeta, il Kilimangiaro è la montagna più alta del continente africano e la vetta più alta del mondo (tra quelle che non appartengono ad una catena montuosa).
Si erge a 5895 metri di altezza, sopra le nuvole, talmente in alto che ti sembra di volare su una navicella spaziale dalla quale il mondo appare piccolissimo, con il sole che ha appena albeggiato ed un cielo di un blu che non si può più scordare.
Ho iniziato ad organizzare questa avventura qualche mese prima di partire. Devo dire che non è stato per nulla facile: le informazioni erano confuse, non si riusciva a capire se realmente bisognasse essere scalatori esperti o semplicemente dei pazzi in cerca di adrenalina. Districandomi tra i vari blog, le poche, pacifiche informazioni erano che si trattasse di un viaggio per “tutti”, (salvo ovviamente coloro che soffrissero di problemi cardiaci o polmonari), ma parecchio costoso. Una volta capito, finalmente, di avere i requisiti per questa impresa, ho cercato delle agenzie locali (principalmente su Arusha e Dar Es Saalam) che potessero farmi un preventivo meno oneroso. Devo ammettere che è stata la mossa vincente! Dopo qualche email, rassicuratami sul fatto che fossero persone oneste e preparate, ho prenotato la “scalata” (dal costo di mille euro circa), scegliendo per motivi di tempo la route più breve e di conseguenza ripida: la Machame route.
Ho volato il primo agosto 2012 con la compagnia Emirates facendo uno scalo notturno a Dubai. Arrivati ad Arusha il nostro driver, che sarebbe poi diventato uno dei nostri “portatori”, ci ha accompagnato in un “confortevole” Hotel con vista sul Kilimangiaro – che già visto da lontano ci iniziava ad incutere qualche timore.
Il primo giorno abbiamo conosciuto “la compagnia”, composta da due guide, tre portatori, un cuoco e un tuttofare (noi eravamo in due con ben sette persone a nostro servizio!). Dopo i saluti di rito, siamo entrati nella Machame Gate, la Porta del Kilimangiaro, così mentre registravamo ufficialmente la nostra scalata nel parco naturale, di fronte a noi trovavamo un grande cartello che illustrava le dieci regole per salire sulla montagna, ed una serie di rischi ed avvertimenti fra i quali, gli eventuali che può arrecare il c.d. “mal di montagna”.
Dopo poche ore di cammino siamo arrivati all’interno della Natural Rain Forest, nome non casuale, nella quale, appunto, ci attendevano cinque ore di pioggia battente. Demoralizzati e bagnati cercavamo di prendere sonno, nonostante i primi pensieri negativi iniziassero ad aleggiare nelle nostre menti. Va da sé infatti, quanto le condizioni climatiche possano influenzare il morale e le giornate soprattutto in un viaggio di questo genere. Devo ammettere che in quel momento il desiderio di abbandonare tutto è stato forte, soprattutto per il vento freddo che impediva ai nostri vestiti di asciugarsi, e con un piccolo zaino da portare sulle spalle non avevamo abbastanza cambi, se le condizioni fossero rimaste tali. L’unica cosa che si può fare in questi momenti è mantenere la calma, fare una preghiera e pensare positivo.
La mattina dopo – e così per il resto del viaggio – il sole splendeva alto sulle nostre teste.
I tre giorni seguenti sono stati pressappoco simili: sveglia alle 7, la guida ci consegnava una bacinella d’acqua per sciacquarci il viso e lavarci i denti (tutto il resto del corpo si lavava con le salviette umide), il cuoco ci preparava la colazione, abbondante e sostanziosa per affrontare al meglio la giornata, smontavamo la tenda ed iniziavamo il cammino. Dopo quattro ore circa ci fermavamo per il pranzo e ricominciavamo a camminare fino alle cinque di pomeriggio. Verso le sette di sera si serviva la cena, e qui c’era la parte più bella e romantica del viaggio: cena sotto le stelle, che, data l’altitudine, sono talmente grandi da sembrare delle lampadine. Cenavamo completamente immersi nella natura ed intorno a noi regnava il silenzio più assoluto; eravamo i “padroni” della montagna… solo il ricordo di queste cene varrebbe l’intero viaggio.
Il quarto e il quinto giorno sono i più difficili di tutti. Talmente tosti che anche se ti avvertissero prima non ci crederesti.
Il quarto giorno ti svegli presto e dopo la solita routine, per pranzo arrivi direttamente al campo base del Kilimangiaro (4700mt). Qui incontri tutti gli altri scellerati che hanno deciso di affrontare quest’avventura. Ma il tempo per fare amicizia è poco: alle tre di pomeriggio sei obbligato a riposarti e vieni spedito dritto a dormire. Verso le sette vieni svegliato per cenare e dopo poco devi nuovamente cercare di riaddormentarti, cosa non facile data l’altitudine che ti crea non pochi problemi: incubi, palpitazioni, ansie, vomito e vertigini. A mezzanotte vieni svegliato e dopo un tè e qualche biscotto ti devi preparare per la scalata finale.
Una fila indiana di persone con la torcia in testa inizia a salire, come soldati, degli alti gradoni, il vento è forte e le temperature rigide (circa trenta gradi sotto lo zero). L’aria è talmente rarefatta che ogni passo diventa un’agonia, ti sembra che da un momento all’altro ti si fermi il cuore, la testa ti fa male e il freddo e la stanchezza ti fanno venire il pensiero fisso di voler scendere immediatamente – fosse facile! Le guide ti controllano le pupille ed il polso continuamente, per vedere se sei ancora vigile. Superata la prima ora in cui l’adrenalina ha ancora la meglio nel tuo corpo, inizia la vera prova. Demoralizzato dalla quantità di persone che iniziano ad abbandonare la scalata, inizi anche tu a vacillare e piano piano a lasciarti andare: nel silenzio più assoluto, dove anche pronunciare una sillaba può costarti fatica, oltre ai pensieri e alle voci della tua mente, le uniche parole che senti sono le varie guide che spronano il proprio gruppo a continuare piano piano (“pole pole “) la salita. La testa ti abbandona completamente, cominci a pensare di non potercela fare, inizi a chiederti seriamente “ma chi me lo ha fatto fare?!”.
Io non so ancora come sia riuscita a reggere e ad arrivare alla vetta. Le sette ore di cammino sono state le più dure della mia vita, credo di aver pianto disperatamente per cinque ore di seguito… Ma posso giurare che arrivare su, oltre all’indescrivibile bellezza paesaggistica, è stata la prova più dura e più bella che abbia mai fatto e che probabilmente farò. Quei cinque minuti in cui sei sulla cima ti cambiano la vita e finché non ci vai non puoi immaginarlo.
Arrivati all’alba (alle sette di mattina circa) dopo pochi minuti a causa del forte vento e del freddo sei costretto a scendere. Affaticato ma felice di essere riuscito in una tale impresa, è talmente grande la soddisfazione che, superando la stanchezza, riesci a tornare al campo base (verso le dieci), dove finalmente (dopo dieci ore) puoi riposare e magiare. Alle tre circa bisognerà infine sgombrare il campo base per lasciare spazio a coloro che dovranno affrontare la scalata la sera seguente, e cominciare la discesa dal monte che durerà altri due giorni.
Questo è un viaggio durissimo, dove non puoi lavarti, dormi in una tenda di mezzo metro quadrato, fa molto freddo, il vento è molto forte, non esistono i bagni, sei fuori dal mondo, non c’è la corrente elettrica, i cellulari non prendono, e qualsiasi cosa ti succeda non c’è modo di scendere repentinamente se non in braccio a un portatore. Per non parlare della mente che ti fa viaggiare lontano e pensare a cose alle quali in mille anni di quotidianità non penseresti mai…
Ma nonostante la fatica, il sudore, le precarie condizioni igieniche, questa esperienza mi ha cambiato la vita e non posso non consigliarlo a ciascuno di voi di farlo once in a life time…
Noi abbiamo proseguito con tre giorni di relax sull’isola di Zanzibar, ma tutto il resto è noia.