Di Rocco D’Alessandro e Giulia Magnaguagno
“Forse all’improvviso, il Nicaragua si era impossessato del nostro andare,
e noi seguivamo quel cammino, improvvisando.
La notte suonava profonda, coinvolgente, come un blues.”
Entrammo in Nicaragua da Los Chiles, ovvero dal confine terrestre con il Costarica.
Quando arriviamo, appena dopo le 16.00, la frontiera è già chiusa. Ci tocca aspettare l’indomani per espletare le varie burocrazie. Poche cose come le frontiere ci fanno pensare al viaggio e alla sua dimensione precaria e accattivante. Los Chiles è un piccolo paese di transizione, sospeso tra due mondi. Poche case, qualche chioschetto ed un paio di alberghetti pronti ad accogliere qualsiasi viandante. La strada principale, che supera la piazza e spacca in due l’abitato, muore sulle sponde di un grande fiume.
Il giorno sta per terminare, da queste parti fa notte presto. Non avendo granché da fare, ci sediamo sulle scalette di cemento che degradano nelle acque placide del rio. Dei bambini giocano ai tuffi, ed un’imbarcazione di legno si avvicina ai nostri piedi.
Chiudo gli occhi e mi immagino di navigare il Rio San Juan, solcare le sue acque limacciose e scorrere con gli occhi la ricca vegetazione tropicale. Il Rio San Juan è lo stesso che divide il Costarica dal Nicaragua. Nasce dalle acque del grande Lago Nicaragua e corre verso sud per oltre 200 km, prima di sfociare nei Caraibi.
TAPPA 1 – SAN CARLOS
Quando arriviamo a San Carlos, per noi il primo contatto con il Nicaragua, troviamo la tipica frenesia delle cittadine centroamericane: bancarelle che lambiscono le strade dissestate, polli che scorrazzano qui e lì, commercianti che vagano come zombi in cerca di improbabili acquirenti e carretti colmi di frutta trainati da individui magri, quasi scheletrici, dalla pelle raggrinzita e consumata dal sole. In una piazzola, di fronte al terminal dei bus, si concentrano i cosiddetti “comedor”, ovvero le taverne dove tutti si fermano a mangiare i soliti piatti a base di pollo, riso e fagioli. Una birra ghiacciata non manca mai.
Il molo da cui partiamo si trova proprio qui di fronte. Ci imbarchiamo con un’intenzione che avrebbe fatto felice, almeno per questa volta, più me che Giulia: il Rio San Juan aveva sempre stimolato in me forti suggestioni, e navigarlo tutto, fino al mare sarebbe stata un’impresa non da poco, data la complessità dei trasporti fluviali che riguarda tutto il Paese.
TAPPA 2 – EL CASTILLO
Lasciamo San Carlos alle due di un caldo pomeriggio; la calura a quest’ora è massima.
Sono previste varie soste, prima di arrivare a destinazione. Lì dove stiamo andando, non ci sono strade, e la gente utilizza il fiume per necessità. Quando arriviamo a El Castillo è già l’ora del tramonto ed il sole si sta abbassando inesorabile, per poi cadere nelle acque o nella selva fitta. Gli ultimi raggi rendono omaggio al giorno che se ne va ed il mio sguardo finisce per posarsi su una bella costruzione circolare in pietra: El Castillo, una vecchia fortezza che gli Spagnoli fecero costruire nel 1675 per presidiare il fiume e per difendere dai pirati gli avamposti commerciali della Corona.
La costruzione si trova proprio a metà strada tra il lago Nicaragua ed il Mar dei Caraibi, dove, notoriamente, corsari e bucanieri sguazzavano alla ricerca di ricchezze da depredare.
Oggi El Castillo, sebbene conservi un alone di leggenda, dà il nome al paesino che si trova sotto le sue mura, e che si è sviluppato a ridosso delle rive del fiume. Casette per lo più in legno, qualche hotel, ostelli piuttosto basici, ristorantini gestiti da gente locale, tutto contribuisce a creare un’atmosfera accogliente per il viaggiatore che, non senza difficoltà, è arrivato sin qui.
Ma la Storia non è l’unico talismano di El Castillo, e ad attrarre l’attenzione dei viaggiatori è un santuario ecologico che si trova nelle immediate vicinanze. Da qui partono infatti le escursioni per la Riserva della Biosfera Indio-Maiz, una sterminata macchia di foresta tropicale che ospita varie specie vegetali e animali autoctoni, come il giaguaro, l’anaconda e vari altri tipi di rettili, mammiferi e insetti.
Ripartiamo da El Castillo per continuare a scendere verso il Mare, ci aspettano altre ore di navigazione lungo le acque bene o male placide del Rio San Juan. Ci siamo ormai abituati al paesaggio, verde, generoso e fitto di vegetazione tropicale. Noi, come il grande fiume San Juan, stiamo per completare le premesse, e quando giungiamo alla foce del Rio è come una liberazione, che però sa di triste. Il compassato flusso delle acque, sempre lente e costanti, sta per sgorgare verso il Mare, e tutto ciò ci sembra melanconico.
TAPPA 3 – BLUEFIELD
La città di San Juan de Nicaragua, che durante il dominio inglese si chiamò Greytown, guarda il Mar dei Caraibi con un fare indifferente, come lo sguardo attento, ma disinteressato, di qualsiasi sentinella che sa di vivere e morire nello posto.
La costa che abbiamo di fronte si chiama Moquitos Coast, ci sentiamo nudi, come se il Rio San Juan avesse smesso di proteggerci. Il Mar dei Caraibi non è affatto rassicurante, le sue onde sono imponenti, le correnti aggressive e le brezze non risparmiano nessuno; ci sembra di guardare all’orizzonte le sagome di galeoni battenti bandiera nera, il Jolly Roger dei teschi e delle ossa incrociate. Le grida e gli spari di carabina sono solo nostre rievocazioni, ma ciò che è realtà è la spietatezza del Mar dei Caraibi, tutt’altro che calmo e placido come lo conosciamo nell’immaginario collettivo. Nei giorni di mareggiata, le onde arrivano anche a cinque metri, ed avventurarsi in quelle acque è da folli, pur navigando sotto costa. Purtroppo è l’unico modo per raggiungere Bluefield, molto più a nord, e da qui raggiungere a sua volta Corn Island, la leggendaria isola a forma di teschio, un tempo avamposto di pirati e bucanieri.
La sorte ci viene in soccorso, il mare si trattiene, e le onde moderano la loro furia.
Quando arriviamo a Bluefield, l’impressione è pessima. Cielo grigio, un porto che sembra essere stato vittima del più potente uragano, case di cemento incrostate di salsedine, strade sudice ed individui lerci, tutt’altro che rassicuranti. Sembra di essere capitati a Tortuga, o a Nassau, qualche secolo fa. Non ci sono gambe di legno, né uncini, ma noi li vediamo ovunque.
Io e Giulia ci guardiamo intorno, irrigiditi dalla lugubre energia di questo posto e un po’ spaesati. Ciò nonostante, cerchiamo subito informazioni per proseguire. Scopriamo che le imbarcazioni per Corn Island partono dall’altro porto della città, purtroppo ancora più inquietante, denominato “El Bluff”.
Arrivati, dopo vari trasbordi, ci indicano una sgangherata mercantile che dovrebbe essere anche nave-passeggeri. Vediamo per lo più solo merci ed operai che stanno completando il carico.
Non c’è scelta, saliamo e cerchiamo un angolo dignitoso per poter affrontare la traversata.
Partiamo all’imbrunire, e all’inizio la navigazione non ci sembra poi così male, con il mare blu all’orizzonte, ed una fresca brezza a stemperare la tensione ed il calore sin lì accumulati.
Un nugolo di gabbiani volteggia sulla nostra testa, come ad indicarci la rotta. Cala la notte, e con lei la temperatura. Siamo perciò costretti ad abbandonare la postazione esterna e a cercare un riparo all’interno, in una camera dove vediamo una serie di costruzioni di legno, che dovrebbero essere delle cuccette. Seppur spartane avrebbero rappresentato un discreto riparo, ma purtroppo sono tutte occupate. Ci accomodiamo allora su due sedie senza schienale e aspettiamo pazienti.
Il mare, intanto, comincia a gonfiarsi, e con lui anche il nostro stomaco. Cerchiamo di resistere, ma una forte nausea ci assale. L’unica soluzione è stendersi a terra, supini, e poco importa se il pavimento è lercio. Non senza rabbrividire, chiudiamo gli occhi, pregando che tutto ciò finisca presto, ma il mare non si calma.
TAPPA 4 – CORN ISLAND
Arriviamo a Corn Island nel cuore della notte, più devastati che coscienti, ma di positivo c’è che siamo sulla terra ferma. Quando riapriamo gli occhi, sul letto di un discreto ostello, il sole è già alto e l’Isola è tutta per noi. Sentiamo parlare una specie di inglese sguaiato, misto a spagnolo, ed immaginiamo si tratti dei soliti americani. Ma ci sbagliamo, sono gli autoctoni che parlano così, mezzo inglese-spagnolo e mezzo miskito. E’il risultato di una germinazione di flussi di gente, di diversa stirpe che si è fermati qui, principalmente per fuggire alla marina britannica o all’armata spagnola. Su quest’isola dalla forma di teschio, pare siano passati i più loschi pirati e, da quello che dicono quelli del posto, sembra che sull’isola siano ancora sepolti preziosi tesori. Qui vive il pro-nipote del famoso pirata Henry Morgan, è tutt’altro che spietato e possiede una grossa azienda specializzata nell’esportazione delle aragoste. A proposito qui siamo ai Caraibi, e le aragoste si trovano abbondanti e a buon prezzo. Il paesaggio è tutta una successione di palme, mare cristallino e sabbia bianca. Siamo però in mare aperto e tra i labirinti della barriera corallina si agirano famelici pescecani. Per il resto c’è un’unica banca, la gente è ospitale, e quando si riesce a far capire, è adorabile.
Eravamo ad 8 ore di distanza dalla terraferma, tutto appariva immobile e consolidato. La gente viveva in maniera semplice e si accontentava di poco; il mare era chiaro ed il cibo buono.
Tuttavia, anche se tutto sembrava così esotico e godibile, avevamo voglia di proseguire.
Ci aspettava ancora la perlustrazione di un Caribe sconosciuto, nascosto tra le mangrovie di Laguna de Perlas.
Tra quelle baie protette dalla giungla acquatica della costa, un tempo si trovavano perle grandi come ciliegie, e la gente seguiva le tradizioni dei loro antenati africani, rifugiatisi tra quelle mangrovie per fuggire al giogo della schiavitù. In quelle terre dove piove sempre, la gente vive serena, lontana dal mondo e circondata dalle paludi. Non troppo distante dalla costa, un gruppetto di isole paradisiache (los Cayos Perlas) giace nel cuore dei Caraibi, lontano da tutto e da tutti.